L'italiano
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Albert Einstein: "Conosco una sola razza, quella umana"
cheyenne
venerdì 26 settembre 2008
«Lettera alla mia terra» di Roberto Saviano
Saviano ama la sua terra, la ama come fosse madre, padre, la sua famiglia. Questo sentimento gli da la forza di gridare tutto il suo dolore per i lutti e lo scempio che la sua terra sta subendo. Allorquando si è animati da sentimenti e passioni si può e si deve fotografare la cruda realtà della camorra con nomi, cognomi e clan affiliati. Saviano lo ha fatto con il libro Gomorra, con tante dichiarazioni pubbliche, compresa questa lettera che fa riferimento agli omicidi di Castel Volturno e, nella quale, invita a non aver paura. Egli sollecita atti di coraggio civile per sconfiggere l'omertà, il silenzio, il chisenefrega, abbandonando falsi infingimenti, paraocchi, alibi e situazioni di comodo. Non si può lasciare soli pochi individui animati da buona volontà, siano essi giornalisti, scrittori, alcuni politici, preti ed associazioni. Non si può lasciare solo all'encomiabile lavoro delle Forze dell'Ordine, ciò che è il dovere dei cittadini di denunciare l'illegalità diffusa.Roberto Saviano, dunque, lancia un ulteriore appello ad assumere lo stesso coraggio che hanno dimostrato sia il giovane marocchino (per altri motivi) che l'immigrato di colore scampato fortunosamente alla mattanza di Castel Volturno. Quegli stessi immigrati, che sono oggetto di intolleranza e condannati a vivere nella marginalità.
C'è ancora speranza .... svegliati Italia ....
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Il grido d'accusa dello scrittore dopo la strage di Castel Volturno"Davvero pensate che nulla di ciò che accade dipenda dal vostro impegno?" Saviano, lettera a Gomorra tra killer e omertà
I RESPONSABILI hanno dei nomi. Hanno dei volti. Hanno persino un'anima. O forse no. Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino, Pietro Vargas stanno portando avanti una strategia militare violentissima. Sono autorizzati dal boss latitante Michele Zagaria e si nascondono intorno a Lago Patria. Tra di loro si sentiranno combattenti solitari, guerrieri che cercano di farla pagare a tutti, ultimi vendicatori di una delle più sventurate e feroci terre d'Europa. Se la racconteranno così.
Ma Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino e Pietro Vargas sono vigliacchi, in realtà: assassini senza alcun tipo di abilità militare. Per ammazzare svuotano caricatori all'impazzata, per caricarsi si strafanno di cocaina e si gonfiano di Fernet Branca e vodka. Sparano a persone disarmate, colte all'improvviso o prese alle spalle. Non si sono mai confrontati con altri uomini armati. Dinnanzi a questi tremerebbero, e invece si sentono forti e sicuri uccidendo inermi, spesso anziani o ragazzi giovani. Ingannandoli e prendendoli alle spalle.
E io mi chiedo: nella vostra terra, nella nostra terra sono ormai mesi e mesi che un manipolo di killer si aggira indisturbato massacrando soprattutto persone innocenti. Cinque, sei persone, sempre le stesse. Com'è possibile? Mi chiedo: ma questa terra come si vede, come si rappresenta a se stessa, come si immagina? Come ve la immaginate voi la vostra terra, il vostro paese? Come vi sentite quando andate al lavoro, passeggiate, fate l'amore? Vi ponete il problema, o vi basta dire, "così è sempre stato e sempre sarà così"?
Davvero vi basta credere che nulla di ciò che accade dipende dal vostro impegno o dalla vostra indignazione? Che in fondo tutti hanno di che campare e quindi tanto vale vivere la propria vita quotidiana e nient'altro. Vi bastano queste risposte per farvi andare avanti?
Vi basta dire "non faccio niente di male, sono una persona onesta" per farvi sentire innocenti? Lasciarvi passare le notizie sulla pelle e sull'anima. Tanto è sempre stato così, o no? O delegare ad associazioni, chiesa, militanti, giornalisti e altri il compito di denunciare vi rende tranquilli? Di una tranquillità che vi fa andare a letto magari non felici ma in pace? Vi basta veramente?
Questo gruppo di fuoco ha ucciso soprattutto innocenti. In qualsiasi altro paese la libertà d'azione di un simile branco di assassini avrebbe generato dibattiti, scontri politici, riflessioni. Invece
qui si tratta solo di crimini connaturati a un territorio considerato una delle province del buco del culo d'Italia. E quindi gli inquirenti, i carabinieri e poliziotti, i quattro cronisti che seguono le vicende, restano soli. Neanche chi nel resto del paese legge un giornale, sa che questi killer usano sempre la stessa strategia: si fingono poliziotti. Hanno lampeggiante e paletta, dicono di essere della Dia o di dover fare un controllo di documenti. Ricorrono a un trucco da due soldi per ammazzare con più facilità. E vivono come bestie: tra masserie di bufale, case di periferia, garage.
Hanno ucciso sedici persone. La mattanza comincia il 2 maggio verso le sei del mattino in una masseria di bufale a Cancello Arnone. Ammazzano il padre del pentito Domenico Bidognetti, cugino ed ex fedelissimo di Cicciotto e' mezzanotte.
Umberto Bidognetti aveva 69 anni e in genere era accompagnato pure dal figlio di Mimì, che giusto quella mattina non era riuscito a tirarsi su dal letto per aiutare il nonno. Il 15 maggio uccidono a Baia Verde, frazione di Castel Volturno, il sessantacinquenne Domenico Noviello, titolare di una scuola guida. Domenico Noviello si era opposto al racket otto anni prima. Era stato sotto scorta, ma poi il ciclo di protezione era finito. Non sapeva di essere nel mirino, non se l'aspettava. Gli scaricano addosso 20 colpi mentre con la sua Panda sta andando a fare una sosta al bar prima di aprire l'autoscuola. La sua esecuzione era anche un messaggio alla Polizia che stava per celebrare la sua festa proprio a Casal di Principe, tre giorni dopo, e ancor più una chiara dichiarazione: può passare quasi un decennio ma i Casalesi non dimenticano.
Prima ancora, il 13 maggio, distruggono con un incendio la fabbrica di materassi di Pietro Russo a Santa Maria Capua Vetere. È l'unico dei loro bersagli ad avere una scorta. Perché è stato l'unico che, con Tano Grasso, tentò di organizzare un fronte contro il racket in terra casalese. Poi, il 30 maggio, a Villaricca colpiscono alla pancia Francesca Carrino, una ragazza, venticinque anni, nipote di Anna Carrino, la ex compagna di Francesco Bidognetti, pentita. Era in casa con la madre e con la nonna, ma era stata lei ad aprire la porta ai killer che si spacciavano per agenti della Dia.
Non passa nemmeno un giorno che a Casal di Principe, mentre dopo pranzo sta per andare al "Roxy bar", uccidono Michele Orsi, imprenditore dei rifiuti vicino al clan che, arrestato l'anno prima, aveva cominciato a collaborare con la magistratura svelando gli intrighi rifiuti-politica-camorra. È un omicidio eccellente che fa clamore, solleva polemiche, fa alzare la voce ai rappresentanti dello Stato. Ma non fa fermare i killer.
L'11 luglio uccidono al Lido "La Fiorente" di Varcaturo Raffaele Granata, 70 anni, gestore dello stabilimento balneare e padre del sindaco di Calvizzano. Anche lui paga per non avere anni prima
ceduto alle volontà del clan. Il 4 agosto massacrano a Castel Volturno Ziber Dani e Arthur Kazani che stavano seduti ai tavoli all'aperto del "Bar Kubana" e, probabilmente, il 21 agosto Ramis Doda, venticinque anni, davanti al "Bar Freedom" di San Marcellino.
Le vittime sono albanesi che arrotondavano con lo spaccio, ma avevano il permesso di soggiorno e lavoravano nei cantieri come muratori e imbianchini.
Poi il 18 agosto aprono un fuoco indiscriminato contro la villetta di Teddy Egonwman, presidente dei nigeriani in Campania, che si batte da anni contro la prostituzione delle sue connazionali, ferendo gravemente lui, sua moglie Alice e altri tre amici.
Tornano a San Marcellino il 12 settembre per uccidere Antonio Ciardullo ed Ernesto Fabozzi, massacrati mentre stavano facendo manutenzione ai camion della ditta di trasporti di cui il primo era titolare. Anche lui non aveva obbedito, e chi gli era accanto è stato ucciso perché testimone.
Infine, il 18 settembre, trivellano prima Antonio Celiento, titolare di una sala giochi a Baia Verde, e un quarto d'ora dopo aprono un fuoco di 130 proiettili di pistole e kalashnikov contro gli africani
riuniti dentro e davanti la sartoria "Ob Ob Exotic Fashion" di Castel Volturno. Muoiono Samuel Kwaku, 26 anni, e Alaj Ababa, del Togo; Cristopher Adams e Alex Geemes, 28 anni, liberiani; Kwame Yulius Francis, 31 anni, e Eric Yeboah, 25, ghanesi, mentre viene ricoverato con ferite gravi Joseph Ayimbora, 34 anni, anche lui del Ghana. Solo uno o due di loro avevano forse a che fare con la droga, gli altri erano lì per caso, lavoravano duro nei cantieri o dove capitava, e pure nella sartoria.
Sedici vittime in meno di sei mesi. Qualsiasi paese democratico con una situazione del genere avrebbe vacillato. Qui da noi, nonostante tutto, neanche se n'è parlato. Neanche si era a conoscenza da Roma in su di questa scia di sangue e di questo terrorismo, che non parla arabo, che non ha stelle a cinque punte, ma comanda e domina senza contrasto.
Ammazzano chiunque si opponga. Ammazzano chiunque capiti sotto tiro, senza riguardi per nessuno. La lista dei morti potrebbe essere più lunga, molto più lunga. E per tutti questi mesi nessuno ha informato l'opinione pubblica che girava questa "paranza di fuoco". Paranza, come le barche che escono a pescare insieme in alto mare. Nessuno ne ha rivelato i nomi sino a quando non hanno fatto strage a Castel Volturno.
Ma sono sempre gli stessi, usano sempre le stesse armi, anche se cercano di modificarle per trarre in inganno la scientifica, segno che ne hanno a disposizione poche. Non entrano in contatto con le famiglie, stanno rigorosamente fra di loro. Ogni tanto qualcuno li intravede nei bar di qualche paesone, dove si fermano per riempirsi d'alcol. E da sei mesi nessuno riesce ad acciuffarli.
Castel Volturno, territorio dove è avvenuta la maggior parte dei delitti, non è un luogo qualsiasi. Non è un quartiere degradato, un ghetto per reietti e sfruttati come se ne possono trovare anche
altrove, anche se ormai certe sue zone somigliano più alle hometown dell'Africa che al luogo di turismo balneare per il quale erano state costruite le sue villette. Castel Volturno è il luogo dove i
Coppola edificarono la più grande cittadella abusiva del mondo, il celebre Villaggio Coppola.
Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento. Che abusivamente presero il posto di una delle più grandi pinete marittime del Mediterraneo. Abusivo l'ospedale, abusiva la caserma dei carabinieri, abusive le poste. Tutto abusivo. Ci andarono ad abitare le famiglie dei soldati della Nato. Quando se ne andarono, il territorio cadde nell'abbandono più totale e divenne tutto feudo di Francesco Bidognetti e al tempo stesso territorio della mafia nigeriana.
I nigeriani hanno una mafia potente con la quale ai Casalesi conveniva allearsi, il loro paese è diventato uno snodo nel traffico internazionale di cocaina e le organizzazioni nigeriane sono potentissime, capaci di investire soprattutto nei money transfer, i punti attraverso i quali tutti gli immigrati del mondo inviano i soldi a casa. Attraverso questi, i nigeriani controllano soldi e persone. Da Castel Volturno transita la coca africana diretta soprattutto in Inghilterra. Le tasse sul traffico che quindi il clan impone non sono soltanto il pizzo sullo spaccio al minuto, ma accordi di una sorta di joint venture. Ora però i nigeriani sono potenti, potentissimi. Così come lo è la mafia albanese, con la quale i Casalesi sono in affari.
E il clan si sta slabbrando, teme di non essere più riconosciuto come chi comanda per primo e per ultimo sul territorio. Ed ecco che nei vuoti si insinuano gli uomini della paranza. Uccidono dei pesci piccoli albanesi come azione dimostrativa, fanno strage di africani - e fra questi nessuno viene dalla Nigeria - colpiscono gli ultimi anelli della catena di gerarchie etniche e criminali. Muoiono ragazzi onesti, ma come sempre, in questa terra, per morire non dev'esserci una ragione. E basta poco per essere diffamati.
I ragazzi africani uccisi erano immediatamente tutti "trafficanti" come furono "camorristi" Giuseppe Rovescio e Vincenzo Natale, ammazzati a Villa Literno il 23 settembre 2003 perché erano fermi a prendere una birra vicino a Francesco Galoppo, affiliato del clan Bidognetti. Anche loro furono subito battezzati come criminali. Non è la prima volta che si compie da quelle parti una mattanza di immigrati. Nel 1990 Augusto La Torre, boss di Mondragone, partì con i suoi fedelissimi alla volta di un bar che, pur gestito da italiani, era diventato un punto di incontro per lo spaccio degli africani. Tutto avveniva sempre lungo la statale Domitiana, a Pescopagano, pochi chilometri a nord di Castel Volturno, però già in territorio mondragonese. Uccisero sei persone, fra cui il gestore, e ne ferirono molte altre. Anche quello era stato il culmine di una serie di azioni contro gli stranieri, ma i Casalesi che pure approvavano le intimidazioni non gradirono la strage. La Torre dovette incassare critiche pesanti da parte di Francesco "Sandokan" Schiavone. Ma ora i tempi sono cambiati e permettono di lasciar esercitare una violenza indiscriminata a un gruppo di cocainomani armati.
Chiedo di nuovo alla mia terra che immagine abbia di sé. Lo chiedo anche a tutte quelle associazioni di donne e uomini che in grande silenzio qui lavorano e si impegnano. A quei pochi politici che riescono a rimanere credibili, che resistono alle tentazioni della collusione o della rinuncia a combattere il potere dei clan. A tutti coloro che fanno bene il loro lavoro, a tutti coloro che cercano di vivere onestamente, come in qualsiasi altra parte del mondo. A tutte queste persone. Che sono sempre di più, ma sono sempre più sole.
Come vi immaginate questa terra? Se è vero, come disse Danilo Dolci, che ciascuno cresce solo se è sognato, voi come ve li sognate questi luoghi? Non c'è stata mai così tanta attenzione rivolta alle vostre terre e quel che vi è avvenuto e vi avviene. Eppure non sembra cambiato molto. I due boss che comandano continuano a comandare e ad essere liberi. Antonio Iovine e Michele Zagaria. Dodici anni di latitanza. Anche di loro si sa dove sono. Il primo è a San Cipriano d'Aversa, il secondo a Casapesenna. In un territorio grande come un fazzoletto di terra, possibile che non si riesca a scovarli?
È storia antica quella dei latitanti ricercati in tutto il mondo e poi trovati proprio a casa loro. Ma è storia nuova che ormai ne abbiano parlato più e più volte giornali e tv, che politici di ogni colore abbiano promesso che li faranno arrestare. Ma intanto il tempo passa e nulla accade. E sono lì. Passeggiano, parlano, incontrano persone.
Ho visto che nella mia terra sono comparse scritte contro di me.
Saviano merda. Saviano verme. E un'enorme bara con il mio nome. E poi insulti, continue denigrazioni a partire dalla più ricorrente e banale: "Quello s'è fatto i soldi". Col mio lavoro di scrittore adesso riesco a vivere e, per fortuna, pagarmi gli avvocati. E loro?
Loro che comandano imperi economici e si fanno costruire ville faraoniche in paesi dove non ci sono nemmeno le strade asfaltate? Loro che per lo smaltimento di rifiuti tossici sono riusciti in una sola operazione a incassare sino a 500 milioni di euro e hanno imbottito la nostra terra di veleni al punto tale di far lievitare fino al 24% certi tumori, e le malformazioni congenite fino all'84% per cento? Soldi veri che generano, secondo l'Osservatorio epidemiologico campano, una media di 7.172,5 morti per tumore all'anno in Campania. E ad arricchirsi sulle disgrazie di questa
terra sarei io con le mie parole, o i carabinieri e i magistrati, i cronisti e tutti gli altri che con libri o film o in ogni altro modo continuano a denunciare? Com'è possibile che si crei un tale capovolgimento di prospettive? Com'è possibile che anche persone oneste si uniscano a questo coro? Pur conoscendo la mia terra, di fronte a tutto questo io rimango incredulo e sgomento e anche ferito al punto che fatico a trovare la mia voce.
Perché il dolore porta ad ammutolire, perché l'ostilità porta a non sapere a chi parlare. E allora a chi devo rivolgermi, che cosa dico?
Come faccio a dire alla mia terra di smettere di essere schiacciata tra l'arroganza dei forti e la codardia dei deboli? Oggi qui in questa stanza dove sono, ospite di chi mi protegge, è il mio compleanno. Penso a tutti i compleanni passati così, da quando ho la scorta, un po' nervoso, un po' triste e soprattutto solo. Penso che non potrò mai più passarne uno normale nella mia terra, che non potrò mai più metterci piede. Rimpiango come un malato senza speranze tutti i compleanni trascurati, snobbati perché è solo una data qualsiasi, e un altro anno ce ne sarà uno uguale. Ormai si è aperta una voragine nel tempo e nello spazio, una ferita che non potrà mai rimarginarsi. E penso pure e soprattutto a chi vive la mia stessa condizione e non ha come me il privilegio di scriverne e parlare a molti.
Penso ad altri amici sotto scorta, Raffaele, Rosaria, Lirio, Tano, penso a Carmelina, la maestra di Mondragone che aveva denunciato il killer di un camorrista e che da allora vive sotto protezione,
lontana, sola. Lasciata dal fidanzato che doveva sposare, giudicata dagli amici che si sentono schiacciati dal suo coraggio e dalla loro mediocrità. Perché non c'era stata solidarietà per il suo gesto, anzi, ci sono state critiche e abbandono. Lei ha solo seguito un richiamo della sua coscienza e ha dovuto barcamenarsi con il magro stipendio che le dà lo stato.
Cos'ha fatto Carmelina, cos'hanno fatto altri come lei per avere la vita distrutta e sradicata, mentre i boss latitanti continuano a poter vivere protetti e rispettati nelle loro terre? E chiedo alla mia terra: che cosa ci rimane? Ditemelo. Galleggiare? Far finta di niente? Calpestare scale di ospedali lavate da cooperative di pulizie loro, ricevere nei serbatoi la benzina spillata da pompe di
benzina loro? Vivere in case costruite da loro, bere il caffè della marca imposta da loro (ogni marca di caffè per essere venduta nei bar deve avere l'autorizzazione dei clan), cucinare nelle loro pentole (il clan Tavoletta gestiva produzione e vendita delle marche più prestigiose di pentole)?
Mangiare il loro pane, la loro mozzarella, i loro ortaggi? Votare i loro politici che riescono, come dichiarano i pentiti, ad arrivare alle più alte cariche nazionali? Lavorare nei loro centri commerciali, costruiti per creare posti di lavoro e sudditanza dovuta al posto di lavoro, ma intanto non c'è perdita, perché gran parte dei negozi sono loro? Siete fieri di vivere nel territorio con i più grandi centri commerciali del mondo e insieme uno dei più alti tassi di povertà? Passare il tempo nei locali gestiti o autorizzati da loro? Sedervi al bar vicino ai loro figli, i figli dei loro avvocati, dei loro colletti bianchi? E trovarli simpatici e innocenti, tutto sommato persone gradevoli, perché loro in fondo sono solo ragazzi, che colpa hanno dei loro padri.
E infatti non si tratta di stabilire colpe, ma di smettere di accettare e di subire sempre, smettere di pensare che almeno c'è ordine, che almeno c'è lavoro, e che basta non grattare, non alzare
il velo, continuare ad andare avanti per la propria strada. Che basta fare questo e nella nostra terra si è già nel migliore dei mondi possibili, o magari no, ma nell'unico mondo possibile sicuramente.
Quanto ancora dobbiamo aspettare? Quanto ancora dobbiamo vedere i migliori emigrare e i rassegnati rimanere? Siete davvero sicuri che vada bene così? Che le serate che passate a corteggiarvi, a ridere, a litigare, a maledire il puzzo dei rifiuti bruciati, a scambiarvi quattro chiacchiere, possano bastare? Voi volete una vita semplice, normale, fatta di piccole cose, mentre intorno a voi c'è una guerra vera, mentre chi non subisce e denuncia e parla perde ogni cosa.
Come abbiamo fatto a divenire così ciechi? Così asserviti e rassegnati, così piegati?
Come è possibile che solo gli ultimi degli ultimi, gli africani di Castel Volturno che subiscono lo sfruttamento e la violenza dei clan italiani e di altri africani, abbiano saputo una volta tirare fuori
più rabbia che paura e rassegnazione? Non posso credere che un sud così ricco di talenti e forze possa davvero accontentarsi solo di questo.
La Calabria ha il Pil più basso d'Italia ma "Cosa Nuova", ossia la 'ndrangheta, fattura quanto e più di una intera manovra finanziaria italiana. Alitalia sarà in crisi, ma a Grazzanise, in un territorio
marcio di camorra, si sta per costruire il più grande aeroporto italiano, il più vasto del Mediterraneo. Una terra condannata a far circolare enormi capitali senza avere uno straccio di sviluppo vero, e invece ha danaro, profitto, cemento che ha il sapore del saccheggio, non della crescita.
Non posso credere che riescano a resistere soltanto pochi individui eccezionali. Che la denuncia sia ormai solo il compito dei pochi singoli, preti, maestri, medici, i pochi politici onesti e gruppi che interpretano il ruolo della società civile. E il resto? Gli altri se ne stanno buoni e zitti, tramortiti dalla paura? La paura. L'alibi maggiore. Fa sentire tutti a posto perché è in suo nome che si tutelano la famiglia, gli affetti, la propria vita innocente, il proprio sacrosanto diritto a viverla e costruirla.
Ma non avere più paura non sarebbe difficile. Basterebbe agire, ma non da soli. La paura va a braccetto con l'isolamento. Ogni volta che qualcuno si tira indietro crea altra paura, che crea ancora altra paura, in un crescendo esponenziale che immobilizza, erode, lentamente manda in rovina.
"Si può edificare la felicità del mondo sulle spalle di un unico bambino maltrattato?", domanda Ivan Karamazov a suo fratello Aljo?a.
Ma voi non volete un mondo perfetto, volete solo una vita tranquilla e semplice, una quotidianità accettabile, il calore di una famiglia.
Accontentarvi di questo pensate che vi metta al riparo da ansie e dolori. E forse ci riuscite, riuscite a trovare una dimensione in cui trovate serenità. Ma a che prezzo?
Se i vostri figli dovessero nascere malati o ammalarsi, se un'altra volta dovreste rivolgervi a un politico che in cambio di un voto vi darà un lavoro senza il quale anche i vostri piccoli sogni e progetti finirebbero nel vuoto, quando faticherete ad ottenere un mutuo per la vostra casa mentre i direttori delle stesse banche saranno sempre disponibili con chi comanda, quando vedrete tutto questo forse vi renderete conto che non c'è riparo, che non esiste nessun ambito protetto, e che l'atteggiamento che pensavate realistico e saggiamente disincantato vi ha appestato l'anima di un risentimento e rancore che toglie ogni gusto alla vostra vita.
Perché se tutto ciò è triste la cosa ancora più triste è l'abitudine. Abituarsi che non ci sia null'altro da fare che rassegnarsi, arrangiarsi o andare via.
Ma Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino e Pietro Vargas sono vigliacchi, in realtà: assassini senza alcun tipo di abilità militare. Per ammazzare svuotano caricatori all'impazzata, per caricarsi si strafanno di cocaina e si gonfiano di Fernet Branca e vodka. Sparano a persone disarmate, colte all'improvviso o prese alle spalle. Non si sono mai confrontati con altri uomini armati. Dinnanzi a questi tremerebbero, e invece si sentono forti e sicuri uccidendo inermi, spesso anziani o ragazzi giovani. Ingannandoli e prendendoli alle spalle.
E io mi chiedo: nella vostra terra, nella nostra terra sono ormai mesi e mesi che un manipolo di killer si aggira indisturbato massacrando soprattutto persone innocenti. Cinque, sei persone, sempre le stesse. Com'è possibile? Mi chiedo: ma questa terra come si vede, come si rappresenta a se stessa, come si immagina? Come ve la immaginate voi la vostra terra, il vostro paese? Come vi sentite quando andate al lavoro, passeggiate, fate l'amore? Vi ponete il problema, o vi basta dire, "così è sempre stato e sempre sarà così"?
Davvero vi basta credere che nulla di ciò che accade dipende dal vostro impegno o dalla vostra indignazione? Che in fondo tutti hanno di che campare e quindi tanto vale vivere la propria vita quotidiana e nient'altro. Vi bastano queste risposte per farvi andare avanti?
Vi basta dire "non faccio niente di male, sono una persona onesta" per farvi sentire innocenti? Lasciarvi passare le notizie sulla pelle e sull'anima. Tanto è sempre stato così, o no? O delegare ad associazioni, chiesa, militanti, giornalisti e altri il compito di denunciare vi rende tranquilli? Di una tranquillità che vi fa andare a letto magari non felici ma in pace? Vi basta veramente?
Questo gruppo di fuoco ha ucciso soprattutto innocenti. In qualsiasi altro paese la libertà d'azione di un simile branco di assassini avrebbe generato dibattiti, scontri politici, riflessioni. Invece
qui si tratta solo di crimini connaturati a un territorio considerato una delle province del buco del culo d'Italia. E quindi gli inquirenti, i carabinieri e poliziotti, i quattro cronisti che seguono le vicende, restano soli. Neanche chi nel resto del paese legge un giornale, sa che questi killer usano sempre la stessa strategia: si fingono poliziotti. Hanno lampeggiante e paletta, dicono di essere della Dia o di dover fare un controllo di documenti. Ricorrono a un trucco da due soldi per ammazzare con più facilità. E vivono come bestie: tra masserie di bufale, case di periferia, garage.
Hanno ucciso sedici persone. La mattanza comincia il 2 maggio verso le sei del mattino in una masseria di bufale a Cancello Arnone. Ammazzano il padre del pentito Domenico Bidognetti, cugino ed ex fedelissimo di Cicciotto e' mezzanotte.
Umberto Bidognetti aveva 69 anni e in genere era accompagnato pure dal figlio di Mimì, che giusto quella mattina non era riuscito a tirarsi su dal letto per aiutare il nonno. Il 15 maggio uccidono a Baia Verde, frazione di Castel Volturno, il sessantacinquenne Domenico Noviello, titolare di una scuola guida. Domenico Noviello si era opposto al racket otto anni prima. Era stato sotto scorta, ma poi il ciclo di protezione era finito. Non sapeva di essere nel mirino, non se l'aspettava. Gli scaricano addosso 20 colpi mentre con la sua Panda sta andando a fare una sosta al bar prima di aprire l'autoscuola. La sua esecuzione era anche un messaggio alla Polizia che stava per celebrare la sua festa proprio a Casal di Principe, tre giorni dopo, e ancor più una chiara dichiarazione: può passare quasi un decennio ma i Casalesi non dimenticano.
Prima ancora, il 13 maggio, distruggono con un incendio la fabbrica di materassi di Pietro Russo a Santa Maria Capua Vetere. È l'unico dei loro bersagli ad avere una scorta. Perché è stato l'unico che, con Tano Grasso, tentò di organizzare un fronte contro il racket in terra casalese. Poi, il 30 maggio, a Villaricca colpiscono alla pancia Francesca Carrino, una ragazza, venticinque anni, nipote di Anna Carrino, la ex compagna di Francesco Bidognetti, pentita. Era in casa con la madre e con la nonna, ma era stata lei ad aprire la porta ai killer che si spacciavano per agenti della Dia.
Non passa nemmeno un giorno che a Casal di Principe, mentre dopo pranzo sta per andare al "Roxy bar", uccidono Michele Orsi, imprenditore dei rifiuti vicino al clan che, arrestato l'anno prima, aveva cominciato a collaborare con la magistratura svelando gli intrighi rifiuti-politica-camorra. È un omicidio eccellente che fa clamore, solleva polemiche, fa alzare la voce ai rappresentanti dello Stato. Ma non fa fermare i killer.
L'11 luglio uccidono al Lido "La Fiorente" di Varcaturo Raffaele Granata, 70 anni, gestore dello stabilimento balneare e padre del sindaco di Calvizzano. Anche lui paga per non avere anni prima
ceduto alle volontà del clan. Il 4 agosto massacrano a Castel Volturno Ziber Dani e Arthur Kazani che stavano seduti ai tavoli all'aperto del "Bar Kubana" e, probabilmente, il 21 agosto Ramis Doda, venticinque anni, davanti al "Bar Freedom" di San Marcellino.
Le vittime sono albanesi che arrotondavano con lo spaccio, ma avevano il permesso di soggiorno e lavoravano nei cantieri come muratori e imbianchini.
Poi il 18 agosto aprono un fuoco indiscriminato contro la villetta di Teddy Egonwman, presidente dei nigeriani in Campania, che si batte da anni contro la prostituzione delle sue connazionali, ferendo gravemente lui, sua moglie Alice e altri tre amici.
Tornano a San Marcellino il 12 settembre per uccidere Antonio Ciardullo ed Ernesto Fabozzi, massacrati mentre stavano facendo manutenzione ai camion della ditta di trasporti di cui il primo era titolare. Anche lui non aveva obbedito, e chi gli era accanto è stato ucciso perché testimone.
Infine, il 18 settembre, trivellano prima Antonio Celiento, titolare di una sala giochi a Baia Verde, e un quarto d'ora dopo aprono un fuoco di 130 proiettili di pistole e kalashnikov contro gli africani
riuniti dentro e davanti la sartoria "Ob Ob Exotic Fashion" di Castel Volturno. Muoiono Samuel Kwaku, 26 anni, e Alaj Ababa, del Togo; Cristopher Adams e Alex Geemes, 28 anni, liberiani; Kwame Yulius Francis, 31 anni, e Eric Yeboah, 25, ghanesi, mentre viene ricoverato con ferite gravi Joseph Ayimbora, 34 anni, anche lui del Ghana. Solo uno o due di loro avevano forse a che fare con la droga, gli altri erano lì per caso, lavoravano duro nei cantieri o dove capitava, e pure nella sartoria.
Sedici vittime in meno di sei mesi. Qualsiasi paese democratico con una situazione del genere avrebbe vacillato. Qui da noi, nonostante tutto, neanche se n'è parlato. Neanche si era a conoscenza da Roma in su di questa scia di sangue e di questo terrorismo, che non parla arabo, che non ha stelle a cinque punte, ma comanda e domina senza contrasto.
Ammazzano chiunque si opponga. Ammazzano chiunque capiti sotto tiro, senza riguardi per nessuno. La lista dei morti potrebbe essere più lunga, molto più lunga. E per tutti questi mesi nessuno ha informato l'opinione pubblica che girava questa "paranza di fuoco". Paranza, come le barche che escono a pescare insieme in alto mare. Nessuno ne ha rivelato i nomi sino a quando non hanno fatto strage a Castel Volturno.
Ma sono sempre gli stessi, usano sempre le stesse armi, anche se cercano di modificarle per trarre in inganno la scientifica, segno che ne hanno a disposizione poche. Non entrano in contatto con le famiglie, stanno rigorosamente fra di loro. Ogni tanto qualcuno li intravede nei bar di qualche paesone, dove si fermano per riempirsi d'alcol. E da sei mesi nessuno riesce ad acciuffarli.
Castel Volturno, territorio dove è avvenuta la maggior parte dei delitti, non è un luogo qualsiasi. Non è un quartiere degradato, un ghetto per reietti e sfruttati come se ne possono trovare anche
altrove, anche se ormai certe sue zone somigliano più alle hometown dell'Africa che al luogo di turismo balneare per il quale erano state costruite le sue villette. Castel Volturno è il luogo dove i
Coppola edificarono la più grande cittadella abusiva del mondo, il celebre Villaggio Coppola.
Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento. Che abusivamente presero il posto di una delle più grandi pinete marittime del Mediterraneo. Abusivo l'ospedale, abusiva la caserma dei carabinieri, abusive le poste. Tutto abusivo. Ci andarono ad abitare le famiglie dei soldati della Nato. Quando se ne andarono, il territorio cadde nell'abbandono più totale e divenne tutto feudo di Francesco Bidognetti e al tempo stesso territorio della mafia nigeriana.
I nigeriani hanno una mafia potente con la quale ai Casalesi conveniva allearsi, il loro paese è diventato uno snodo nel traffico internazionale di cocaina e le organizzazioni nigeriane sono potentissime, capaci di investire soprattutto nei money transfer, i punti attraverso i quali tutti gli immigrati del mondo inviano i soldi a casa. Attraverso questi, i nigeriani controllano soldi e persone. Da Castel Volturno transita la coca africana diretta soprattutto in Inghilterra. Le tasse sul traffico che quindi il clan impone non sono soltanto il pizzo sullo spaccio al minuto, ma accordi di una sorta di joint venture. Ora però i nigeriani sono potenti, potentissimi. Così come lo è la mafia albanese, con la quale i Casalesi sono in affari.
E il clan si sta slabbrando, teme di non essere più riconosciuto come chi comanda per primo e per ultimo sul territorio. Ed ecco che nei vuoti si insinuano gli uomini della paranza. Uccidono dei pesci piccoli albanesi come azione dimostrativa, fanno strage di africani - e fra questi nessuno viene dalla Nigeria - colpiscono gli ultimi anelli della catena di gerarchie etniche e criminali. Muoiono ragazzi onesti, ma come sempre, in questa terra, per morire non dev'esserci una ragione. E basta poco per essere diffamati.
I ragazzi africani uccisi erano immediatamente tutti "trafficanti" come furono "camorristi" Giuseppe Rovescio e Vincenzo Natale, ammazzati a Villa Literno il 23 settembre 2003 perché erano fermi a prendere una birra vicino a Francesco Galoppo, affiliato del clan Bidognetti. Anche loro furono subito battezzati come criminali. Non è la prima volta che si compie da quelle parti una mattanza di immigrati. Nel 1990 Augusto La Torre, boss di Mondragone, partì con i suoi fedelissimi alla volta di un bar che, pur gestito da italiani, era diventato un punto di incontro per lo spaccio degli africani. Tutto avveniva sempre lungo la statale Domitiana, a Pescopagano, pochi chilometri a nord di Castel Volturno, però già in territorio mondragonese. Uccisero sei persone, fra cui il gestore, e ne ferirono molte altre. Anche quello era stato il culmine di una serie di azioni contro gli stranieri, ma i Casalesi che pure approvavano le intimidazioni non gradirono la strage. La Torre dovette incassare critiche pesanti da parte di Francesco "Sandokan" Schiavone. Ma ora i tempi sono cambiati e permettono di lasciar esercitare una violenza indiscriminata a un gruppo di cocainomani armati.
Chiedo di nuovo alla mia terra che immagine abbia di sé. Lo chiedo anche a tutte quelle associazioni di donne e uomini che in grande silenzio qui lavorano e si impegnano. A quei pochi politici che riescono a rimanere credibili, che resistono alle tentazioni della collusione o della rinuncia a combattere il potere dei clan. A tutti coloro che fanno bene il loro lavoro, a tutti coloro che cercano di vivere onestamente, come in qualsiasi altra parte del mondo. A tutte queste persone. Che sono sempre di più, ma sono sempre più sole.
Come vi immaginate questa terra? Se è vero, come disse Danilo Dolci, che ciascuno cresce solo se è sognato, voi come ve li sognate questi luoghi? Non c'è stata mai così tanta attenzione rivolta alle vostre terre e quel che vi è avvenuto e vi avviene. Eppure non sembra cambiato molto. I due boss che comandano continuano a comandare e ad essere liberi. Antonio Iovine e Michele Zagaria. Dodici anni di latitanza. Anche di loro si sa dove sono. Il primo è a San Cipriano d'Aversa, il secondo a Casapesenna. In un territorio grande come un fazzoletto di terra, possibile che non si riesca a scovarli?
È storia antica quella dei latitanti ricercati in tutto il mondo e poi trovati proprio a casa loro. Ma è storia nuova che ormai ne abbiano parlato più e più volte giornali e tv, che politici di ogni colore abbiano promesso che li faranno arrestare. Ma intanto il tempo passa e nulla accade. E sono lì. Passeggiano, parlano, incontrano persone.
Ho visto che nella mia terra sono comparse scritte contro di me.
Saviano merda. Saviano verme. E un'enorme bara con il mio nome. E poi insulti, continue denigrazioni a partire dalla più ricorrente e banale: "Quello s'è fatto i soldi". Col mio lavoro di scrittore adesso riesco a vivere e, per fortuna, pagarmi gli avvocati. E loro?
Loro che comandano imperi economici e si fanno costruire ville faraoniche in paesi dove non ci sono nemmeno le strade asfaltate? Loro che per lo smaltimento di rifiuti tossici sono riusciti in una sola operazione a incassare sino a 500 milioni di euro e hanno imbottito la nostra terra di veleni al punto tale di far lievitare fino al 24% certi tumori, e le malformazioni congenite fino all'84% per cento? Soldi veri che generano, secondo l'Osservatorio epidemiologico campano, una media di 7.172,5 morti per tumore all'anno in Campania. E ad arricchirsi sulle disgrazie di questa
terra sarei io con le mie parole, o i carabinieri e i magistrati, i cronisti e tutti gli altri che con libri o film o in ogni altro modo continuano a denunciare? Com'è possibile che si crei un tale capovolgimento di prospettive? Com'è possibile che anche persone oneste si uniscano a questo coro? Pur conoscendo la mia terra, di fronte a tutto questo io rimango incredulo e sgomento e anche ferito al punto che fatico a trovare la mia voce.
Perché il dolore porta ad ammutolire, perché l'ostilità porta a non sapere a chi parlare. E allora a chi devo rivolgermi, che cosa dico?
Come faccio a dire alla mia terra di smettere di essere schiacciata tra l'arroganza dei forti e la codardia dei deboli? Oggi qui in questa stanza dove sono, ospite di chi mi protegge, è il mio compleanno. Penso a tutti i compleanni passati così, da quando ho la scorta, un po' nervoso, un po' triste e soprattutto solo. Penso che non potrò mai più passarne uno normale nella mia terra, che non potrò mai più metterci piede. Rimpiango come un malato senza speranze tutti i compleanni trascurati, snobbati perché è solo una data qualsiasi, e un altro anno ce ne sarà uno uguale. Ormai si è aperta una voragine nel tempo e nello spazio, una ferita che non potrà mai rimarginarsi. E penso pure e soprattutto a chi vive la mia stessa condizione e non ha come me il privilegio di scriverne e parlare a molti.
Penso ad altri amici sotto scorta, Raffaele, Rosaria, Lirio, Tano, penso a Carmelina, la maestra di Mondragone che aveva denunciato il killer di un camorrista e che da allora vive sotto protezione,
lontana, sola. Lasciata dal fidanzato che doveva sposare, giudicata dagli amici che si sentono schiacciati dal suo coraggio e dalla loro mediocrità. Perché non c'era stata solidarietà per il suo gesto, anzi, ci sono state critiche e abbandono. Lei ha solo seguito un richiamo della sua coscienza e ha dovuto barcamenarsi con il magro stipendio che le dà lo stato.
Cos'ha fatto Carmelina, cos'hanno fatto altri come lei per avere la vita distrutta e sradicata, mentre i boss latitanti continuano a poter vivere protetti e rispettati nelle loro terre? E chiedo alla mia terra: che cosa ci rimane? Ditemelo. Galleggiare? Far finta di niente? Calpestare scale di ospedali lavate da cooperative di pulizie loro, ricevere nei serbatoi la benzina spillata da pompe di
benzina loro? Vivere in case costruite da loro, bere il caffè della marca imposta da loro (ogni marca di caffè per essere venduta nei bar deve avere l'autorizzazione dei clan), cucinare nelle loro pentole (il clan Tavoletta gestiva produzione e vendita delle marche più prestigiose di pentole)?
Mangiare il loro pane, la loro mozzarella, i loro ortaggi? Votare i loro politici che riescono, come dichiarano i pentiti, ad arrivare alle più alte cariche nazionali? Lavorare nei loro centri commerciali, costruiti per creare posti di lavoro e sudditanza dovuta al posto di lavoro, ma intanto non c'è perdita, perché gran parte dei negozi sono loro? Siete fieri di vivere nel territorio con i più grandi centri commerciali del mondo e insieme uno dei più alti tassi di povertà? Passare il tempo nei locali gestiti o autorizzati da loro? Sedervi al bar vicino ai loro figli, i figli dei loro avvocati, dei loro colletti bianchi? E trovarli simpatici e innocenti, tutto sommato persone gradevoli, perché loro in fondo sono solo ragazzi, che colpa hanno dei loro padri.
E infatti non si tratta di stabilire colpe, ma di smettere di accettare e di subire sempre, smettere di pensare che almeno c'è ordine, che almeno c'è lavoro, e che basta non grattare, non alzare
il velo, continuare ad andare avanti per la propria strada. Che basta fare questo e nella nostra terra si è già nel migliore dei mondi possibili, o magari no, ma nell'unico mondo possibile sicuramente.
Quanto ancora dobbiamo aspettare? Quanto ancora dobbiamo vedere i migliori emigrare e i rassegnati rimanere? Siete davvero sicuri che vada bene così? Che le serate che passate a corteggiarvi, a ridere, a litigare, a maledire il puzzo dei rifiuti bruciati, a scambiarvi quattro chiacchiere, possano bastare? Voi volete una vita semplice, normale, fatta di piccole cose, mentre intorno a voi c'è una guerra vera, mentre chi non subisce e denuncia e parla perde ogni cosa.
Come abbiamo fatto a divenire così ciechi? Così asserviti e rassegnati, così piegati?
Come è possibile che solo gli ultimi degli ultimi, gli africani di Castel Volturno che subiscono lo sfruttamento e la violenza dei clan italiani e di altri africani, abbiano saputo una volta tirare fuori
più rabbia che paura e rassegnazione? Non posso credere che un sud così ricco di talenti e forze possa davvero accontentarsi solo di questo.
La Calabria ha il Pil più basso d'Italia ma "Cosa Nuova", ossia la 'ndrangheta, fattura quanto e più di una intera manovra finanziaria italiana. Alitalia sarà in crisi, ma a Grazzanise, in un territorio
marcio di camorra, si sta per costruire il più grande aeroporto italiano, il più vasto del Mediterraneo. Una terra condannata a far circolare enormi capitali senza avere uno straccio di sviluppo vero, e invece ha danaro, profitto, cemento che ha il sapore del saccheggio, non della crescita.
Non posso credere che riescano a resistere soltanto pochi individui eccezionali. Che la denuncia sia ormai solo il compito dei pochi singoli, preti, maestri, medici, i pochi politici onesti e gruppi che interpretano il ruolo della società civile. E il resto? Gli altri se ne stanno buoni e zitti, tramortiti dalla paura? La paura. L'alibi maggiore. Fa sentire tutti a posto perché è in suo nome che si tutelano la famiglia, gli affetti, la propria vita innocente, il proprio sacrosanto diritto a viverla e costruirla.
Ma non avere più paura non sarebbe difficile. Basterebbe agire, ma non da soli. La paura va a braccetto con l'isolamento. Ogni volta che qualcuno si tira indietro crea altra paura, che crea ancora altra paura, in un crescendo esponenziale che immobilizza, erode, lentamente manda in rovina.
"Si può edificare la felicità del mondo sulle spalle di un unico bambino maltrattato?", domanda Ivan Karamazov a suo fratello Aljo?a.
Ma voi non volete un mondo perfetto, volete solo una vita tranquilla e semplice, una quotidianità accettabile, il calore di una famiglia.
Accontentarvi di questo pensate che vi metta al riparo da ansie e dolori. E forse ci riuscite, riuscite a trovare una dimensione in cui trovate serenità. Ma a che prezzo?
Se i vostri figli dovessero nascere malati o ammalarsi, se un'altra volta dovreste rivolgervi a un politico che in cambio di un voto vi darà un lavoro senza il quale anche i vostri piccoli sogni e progetti finirebbero nel vuoto, quando faticherete ad ottenere un mutuo per la vostra casa mentre i direttori delle stesse banche saranno sempre disponibili con chi comanda, quando vedrete tutto questo forse vi renderete conto che non c'è riparo, che non esiste nessun ambito protetto, e che l'atteggiamento che pensavate realistico e saggiamente disincantato vi ha appestato l'anima di un risentimento e rancore che toglie ogni gusto alla vostra vita.
Perché se tutto ciò è triste la cosa ancora più triste è l'abitudine. Abituarsi che non ci sia null'altro da fare che rassegnarsi, arrangiarsi o andare via.
Chiedo alla mia terra se riesce ancora ad immaginare di poter scegliere. Le chiedo se è in grado di compiere almeno quel primo gesto di libertà che sta nel riuscire a pensarsi diversa, pensarsi libera. Non rassegnarsi ad accettare come un destino naturale quel che è invece opera degli uomini.
Quegli uomini possono strapparti alla tua terra e al tuo passato, portarti via la serenità, impedirti di trovare una casa, scriverti insulti sulle pareti del tuo paese, possono fare il deserto intorno a te. Ma non possono estirpare quel che resta una certezza e, per questo, rimane pure una speranza. Che non è giusto, non è per niente naturale, far sottostare un territorio al dominio della violenza e dello sfruttamento senza limiti. E che non deve andare avanti così perché così è sempre stato. Anche perché non è vero che tutto è sempre uguale, ma è sempre peggio.
Perché la devastazione cresce proporzionalmente con i loro affari, perché è irreversibile come la terra una volta per tutte appestata, perché non conosce limiti. Perché là fuori si aggirano sei killer abbrutiti e strafatti, con licenza di uccidere e non mandato, che non si fermano di fronte a nessuno. Perché sono loro l'immagine e somiglianza di ciò che regna oggi su queste terre e di quel che le attende domani, dopodomani, nel futuro. Bisogna trovare la forza di cambiare. Ora, o mai più.
La lettera di Roberto Saviano è sul sito di Republica.it, qui >>>
Quegli uomini possono strapparti alla tua terra e al tuo passato, portarti via la serenità, impedirti di trovare una casa, scriverti insulti sulle pareti del tuo paese, possono fare il deserto intorno a te. Ma non possono estirpare quel che resta una certezza e, per questo, rimane pure una speranza. Che non è giusto, non è per niente naturale, far sottostare un territorio al dominio della violenza e dello sfruttamento senza limiti. E che non deve andare avanti così perché così è sempre stato. Anche perché non è vero che tutto è sempre uguale, ma è sempre peggio.
Perché la devastazione cresce proporzionalmente con i loro affari, perché è irreversibile come la terra una volta per tutte appestata, perché non conosce limiti. Perché là fuori si aggirano sei killer abbrutiti e strafatti, con licenza di uccidere e non mandato, che non si fermano di fronte a nessuno. Perché sono loro l'immagine e somiglianza di ciò che regna oggi su queste terre e di quel che le attende domani, dopodomani, nel futuro. Bisogna trovare la forza di cambiare. Ora, o mai più.
La lettera di Roberto Saviano è sul sito di Republica.it, qui >>>
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sito dello scrittore Roberto Saviano
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Albert Einstein: "Conosco una sola razza, quella umana"
cheyenne
martedì 23 settembre 2008
Il coraggio di un marocchino
Un ragazzo di 17 anni, marocchino, stanco di essere sfruttato da una organizzazione a Trapani ed usato per compiere furti e rapine e spacciare droga in città, ha avuto il coraggio di denunciare alla Polizia i suoi aguzzini.
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Nella nostra realtà, si chiama W. R., ha 17 anni, è stato abbandonato dal padre in Marocco, è venuto in Italia a cercare la madre e ha perso anche lei. E’ finito nelle grinfie di gente che l’ha sfruttato e rovinato, finché una assistente sociale non l’ha portato con la sua storia dai poliziotti della Squadra Mobile di Trapani. Gli aguzzini erano una bella banda di italiani, amici di parenti e amici degli amici, uomini e donne, vecchi e giovani, padri e madri, figli e fratelli, tutti italiani brava gente che si indignano con gli stranieri, e che protestano perché gli immigrati spacciano la droga o rubano nelle case. Difatti, mandavano lui a spacciare droga e a rubare nelle case: loro si tenevano i soldi.
continua >>> l'articolo di Pierangelo Sapegno pubblicato su La Stampa
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continua >>> l'articolo di Pierangelo Sapegno pubblicato su La Stampa
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Albert Einstein: "Conosco una sola razza, quella umana"
cheyenne
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mercoledì 17 settembre 2008
La classifica del fotovoltaico in Italia. Sorprese italiane!
Quali sono le regioni italiane che producono più energia fotovoltaica?
Incredibile ma vero, la prima classificata è una delle regioni italiane che potrebbero essere considerate tra le meno adatte, sia per il proprio posizionamento geografico (Global horizontal irradiation - vedi nel proseguo del post), sia per questioni metereologiche e di purezza dell'aria: la Lombardia. La classifica è il risultato di uno studio realizzato da Legambiente e KyotoClub, analizzando i dati forniti da GSE (Gestore Servizi Elettrici) alla data del 1° settembre 2008.
Ecco i numeri e la classifica generale.
Come dicevamo è la Lombardia la Regione italiana con la maggiore potenza di energia Fotovoltaica installata: infatti stiamo parlando di 21,34 MW; leadership confermata anche quando si analizzano il numero degli impianti realizzati. La potenza FotoVoltaica prodotta in Lombardia rappresenta circa il 12% sul totale nazionale. A breve distanza seguono l'Emilia Romagna con una potenza di energia Fotovoltaica pari a 19,82 MW e subito dietro la Puglia con 19,16 MW.
Quest'ultima è la regione meridionale di gran lunga più attiva.
Quest'ultima è la regione meridionale di gran lunga più attiva.
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approfondimento:
Daniel Nocera, professore di Energia del Mit, spiega come sfruttare energia solare h24
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Albert Einstein: "Conosco una sola razza, quella umana"
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Alitalia: siamo alla frutta?
Salvataggi ed ultimatum: come si è arrivati a questo punto? La storia della compagnia italiana dalla sua nascita nel 1947, sino ai nostri giorni, attraverso un reportage a cura di Giovanni Minoli all'interno del noto contenitore culturale de "La Storia Siamo Noi" di Rai Educational.
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ALITALIA COME ITALIA
Una crisi all'ultimo atto
Il futuro dell'Alitalia oggi, dopo il fallimento della trattativa della scorsa primavera con AirFrance, ruota attorno all'offerta della cordata Compagnia aerea italiana (Cai), il cui piano prevede tra le altre cose: 3.000 esuberi (ovvero dipendenti interessati da "provvedimenti di integrazione di reddito e di ricollocamento") e salari invariati ma con un chiaro e netto aumento della produttività. Tra le ultime novità vi è la decisione del ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, di ammettere alla procedura di amministrazione straordinaria le società Alitalia Airport e Alitalia Servizi. Intanto però il personale Alitalia continua a protestare e a sperare in un accordo più vantaggioso.
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La compagnia di bandiera italiana, un tempo autentico orgoglio nazionale, esempio di eccellenza e professionalità, sembra oggi essere divenuta un pesante fardello di cui sbarazzarsi. Ad oltre sessant'anni dal primo volo, effettuato il 5 maggio 1947, Alitalia attraversa una crisi che appare irreversibile: le cattive gestioni e gli sprechi che si sono succeduti negli anni hanno fatto del bilancio aziendale una voragine capace di inghiottire miliardi, mentre il destino dei 20.000 dipendenti resta appeso ad un filo.
Nasce Alitalia
Tutto ha inizio il 5 maggio del 1947 quando dall’aeroporto dell’Urbe di Roma parte il primo volo Alitalia con destinazione Catania. L’aereo è un trimotore G12 Fiat, il costo del biglietto è di 7.000
lire. A capo dell’azienda, nata ufficialmente il 16 settembre del ’46 a maggioranza IRI, c’è l’ambasciatore Giuseppe de Michelis che però si dimette nel ’48 per lasciare il posto al conte Nicolò Carandini, il primo membro di un triumvirato di amministratori che è riuscito a realizzare il grande sviluppo di Alitalia:
Nicolò Carandini: Presidente, politico liberale, dotato di eccellenti relazioni internazionali.
Bruno Velani: Amministratore Delegato, ingegnere aeronautico e pilota militare.
Donato Saracino: Direttore Generale, uomo IRI, amministratore sagace ed attento.
Dal 1948, per 10 anni Alitalia cresce con continuità: apre nuove rotte, rinnova la flotta e vola ovunque ci siano Italiani nel mondo. È la compagna di riferimento di tutto il continente africano dove, come racconta uno steward Alitalia “un rappresentante dell’Alitalia contava più dell’ambasciatore italiano!”. Nel 1950, anno del Giubileo, Alitalia ingloba la Lati, delle linee aeree transcontinentali italiane e conquista anche le rotte del sud america. Intanto salgono a bordo dei DC-4 le prime hostess che indossano tailleur delle sorelle Fontana. Due anni dopo l’azienda chiude in attivo, investe in nuovi aerei a cabina pressurizzata al fine di volare “sopra le nuvole” e quindi più veloci e meno “agitati”.
L’azienda conta in sicurezza su una squadra di ingegneri e meccanici di altissima professionalità: attenti, bravi e veloci, tanto da essere paragonati a quelli della Ferrari.
Nel ‘54 grazie ad aerei più capienti nasce la classe turistica e con le tariffe economiche il trasporto aereo, da lusso per pochi eletti, diventa un mezzo per le masse: un volo Milano-Londra costa 43.500 lire, mentre un Milano-Parigi 19.700. Il cibo e il servizio inoltre sono ottimi, in prima classe si mangia caviale e si beve champagne.
Il 1 settembre del ‘57 Alitaia si fonde con la LAI, altra azienda a maggioranza IRI che con Alitalia si divide di fatto il trasporto aereo in Italia: dalla LAI arrivano rete e passeggeri, e dalla fusione nasce una grande compagnia di bandiera che può finalmente competere con le più grandi compagnie del mondo. È il fiore all’occhiello della nazione.
Nel ‘60 diventa il vettore ufficiale delle Olimpiadi e segna il suo record personale, oltre un milione di passeggeri. Lo stesso anno cambia casa e look: si sposta nell’aeroporto “Leonardo da Vinci” di Fiumicino, mentre il timone di coda viene dipinto con i colori della bandiera italiana.
Compiuti i suoi primi 20 anni Alitalia è già al 7° posto nel trasporto internazionale; in Europa è terza dietro alla British Airways e ad Air France. Collega 70 nazioni, fattura 140 miliardi e conta 10mila dipendenti in tutto il mondo.
È anche la prima compagnia a “portare in cielo” il Papa, Paolo VI, che nel ’69 va in pellegrinaggio a Gerusalemme.
Vent’anni di successi, quindi, grazie a una dirigenza stabile, a ottime strategie di investimento e alle certezze che il mercato dà in questo periodo. Difficile riconoscerla oggi.
Arriva la “deregulation”
All’inizio degli anni ’70 il mondo delle compagnie aeree viene scosso dalle crisi petrolifere (che portano il carburante alle stelle) e dalla deregulation.
Nel 1978 il Presidente americano Jimmy Carter annuncia che il trasporto aereo soffre di “troppa regualtion” e decide di far cadere il regime di monopolio creato da Roosvelt nel ’38. La deregulation cambia letteralmente le regole del gioco: apre alla concorrenza e scatena una competizione senza regole, che straccia i prezzi. Dagli Stati Uniti dove la Pan Am, la più grande compagnia aerea nel mondo, fallisce nel ’91, la deregulation rimbalza in altri stati del mondo: dopo 15 anni di trattative e 3 direttive comunitarie, anche l’Europa nel ‘97 è pronta ad arttuarla.
Le compagnie di bandiera perdono il monopolio dei voli nazionali ed europei, e il mercato aereo apre a imprese private che aumentano i voli e diminuiscono i prezzi. Questo quasi ovunque tranne che in Italia dove, come afferma Sergio Arienzi, steward Alitalia fino al 2005: «deregulation vuol dire “rinunciare ai soldi pubblici”, cioè agli aiuti economici per coprire debiti spesso causati dallo Stato stesso attraverso un uso politico ed elettorale, anziché imprenditoriale, delle compagnie nazionali. Come i voli creati ad hoc perché servivano al politico che doveva venire dalla Sicilia a Roma la mattina presto che portavano solo 4 passeggeri!»”
Quindi se dalla fine degli anni ’80 in tutta Europa, Stati e compagnie di bandiera preparano piani industriali e leggi per avviare la privatizzazione e far crescere le aziende attraverso alleanze vantaggiose, l’Italia dal canto suo rimane indietro: è ancora controllata al 100% dal Tesoro, non ha alleati, ha le casse vuote, pochi aerei e per giunta vecchi. È l’inizio di un declino che oggi sembra irrefrenabile.
La direzione Cempella e la prima privatizzazione
Nei primi anni ‘90 l’eccessivo piano di investimenti produce risultati di bilancio molto deludenti mentre le tensioni sindacali iniziano a crescere a dismisura.
Nel ’96 l’azionista, ovvero lo Stato, nomina come Amministratore Delegato, Domenico Cempella, un uomo che aveva lavorato da sempre in Alitalia: «Trovai una situazione che si può descrivere così: debiti per 3mila miliardi, patrimonio netto 150 miliardi, 10 anni di perdite e una situazione interna abbastanza difficile perché c’erano delle forti lotte intestine fra sindacati. Era un prodotto che non stava sul mercato, l’Alitalia era veramente tecnicamente fallita».
Come detto Alitalia si trova indietro rispetto agli altri vettori europei e necessita al più presto di un vero piano industriale finalizzato a due obiettivi fondamentali: crescita e privatizzazione.
Cempella come prima cosa fa alcuni tagli (il costo del lavoro passa dal 27% di incidenza sul fatturato al 20%), e poi mette in atto il suo piano: vendere parte delle azioni (il 21%) ai lavoratori stessi. Questo comporta più lavoro allo stesso prezzo, cioè azioni in cambio di retribuzioni. I dipendenti diventano azionisti e partecipano alle strategie e alle decisioni della compagnia che da parte sua risparmia. Con questa mossa Cempella ottiene 4 anni di pace in relazione agli scioperi.
Ma in realtà non tutti i sindacati sono concordi così come racconta Fausto Cereti, che di Alitalia ne è stato il Presidente dal ’96 al 2003: «Il problema fu che la CISL era favorevole, mentre la CGIL considerava le azioni ai dipendenti una manovra paternalistica “vallettiana”: uno voleva la proprietà ai dipendenti, l’altro voleva il padrone dall’altra parte della barricata. Tant’è vero che Cofferati ordinò al rappresentante della CGIL di non partecipare ai due consigli».
La CGIL decide quindi di lasciare le azioni nelle mani dell’azionista pubblico che oggi con i conti della compagnia in rosso valgono pochissimo: da più di 100 milioni di lire sono scese a poche decine di euro.
Per la prima volta quindi nel 1996 l’azionista pubblico e cioè il Ministero del Tesoro del Governo Prodi vende il 37% delle azioni di Alitalia. Il 21%, come detto, va ai dipendenti, mentre un altro 15% viene messo sul mercato con un ottimo risultato di borsa: l’Alitalia che privatizza legando i propri dipendenti alla compagnia dà fiducia agli investitori. Ma ben presto questo sforzo si rivelerà un’occasione sprecata per Stato, dipendenti e azienda.
Intanto nel 1997, nella prima fase del piano industriale, i conti cominciano a tornare: la capitalizzazione di borsa passa da 600 a 6.000 miliardi, Alitalia salda i debiti per 3.000 miliardi e investe nella flotta per 2.500 miliardi. Nel triennio ‘97-‘99 gli utili netti arrivano quasi a mille miliardi di lire. L’azienda è quindi sostanzialmente risanata.
L’Europa ostacola la ricapitalizzazione
Secondo Cempella la posizione strategica di Alitalia è difficile: troppo grande per competere con i piccoli e troppo piccola per i grandi. Per l’amministratore delegato “sviluppo” significa “cambiare
dimensione” e scegliere di diventare una compagnia globale.
Fino a questo momento infatti Alitalia non era stata né carne né pesce, non aveva una vera direzione in quanto manager diversi e di breve durata, con politiche spesso contraddittorie, avevano impedito all’azienda di scegliere il suo business ed esserne coerente fino in fondo: se da una parte Roberto Schisano, Amministratore delegato dal ‘94 al ‘95, aveva scelto in accordo con l’azionista un piano di rilancio che scommetteva sul low cost, e quindi sul medio raggio, il Presidente Renato Riverso nei due anni seguenti lavorò invece, sempre d’accordo con l’azionista, a un piano che puntava sul lungo raggio tentando un’alleanza (poi fallita) con la British Airways.
Nel ’96 Cempella stima a 3mila miliardi la quota necessaria per la ricapitalizzazione. Ma poiché viene da un soggetto pubblico, la legge prevede che passi l’esame da parte della Comunità Europea. Per poter avere l’ok occorre che i risultati del piano, e cioè la redditività dell’intervento dell’azionista pubblico, sia uguale alla redditività attesa da un finanziatore privato. Ovvero, lo Stato può ricapitalizzare, ridare energie economiche al proprio vettore, ma come un qualunque investitore privato che dal finanziamento si aspetta un utile in linea con il mercato. Non può fare quindi finanziamenti a fondo perduto.
Secondo Cempella il suo piano risponde alla normativa, eppure alla fine del processo di esame, la Comunità decide di assegnare a questa operazione il titolo di “Stato compatibile”, questo significa
mettere l’azienda per quattro o cinque anni sotto tutela impossibilitandolo ad aprire nuove rotte, acquistare nuovi arerei e applicare la migliore tariffa sulla stessa rotta.
Per l’Ad il Governo non aveva fatto abbastanza per evitare questa decisione: «Lo Stato italiano, l’azionista, accettò questa “imposizione”, quando un’azione molto più incisiva del Governo avrebbe probabilmente determinato una fine diversa».
E infatti in quegli anni Air France e Iberia chiedono e ottengono dalla Comunità Europea di poter ricapitalizzare come finanziamento di mercato, nonostante il loro piano industriale presenti degli indici di premio (cioè guadagni) inferiori a quelli del piano di Cempella che quindi fa approvare dal Consiglio di Amministrazione un ricorso “perché fermamente convinto che la decisione fosse iniqua e ingiusta”.
Il ricorso viene vinto il 12 dicembre del 2000, ma per l’azienda ormai è troppo tardi.
Se quindi come ammesso dalla stessa Comunità Europea, le ragioni della bocciatura non erano nel piano industriale, dove si trovavano? L’unica risposta che Fausto Cereti si dà è legata agli interessi che l’Europa stessa aveva in Italia, soprattutto in relazione al progetto “Malpensa 2000”.
Malpensa 2000
Di Malpensa si inizia a parlare già dal ‘93 quando il consiglio d’Europa chiede ai Paesi membri di sviluppare i collegamenti con l’Europa dell’est. Tra i vari progetti l’Italia presenta quello per
“Malpensa 2000” che l’Europa approva nel ‘94.
A dicembre la Banca Europea sottoscrive l’accordo per erogare alla SEA, la società di gestione degli aeroporti di Milano (di proprietà del Comune), oltre 400 miliardi di lire da restituire in 15 anni.
Sono soldi destinati a fare di Malpensa un grande hub, ovvero un distributore di traffico aeroportuale dove i passeggeri trovano voli per tutte le destinazioni, concorrente a quello di Francoforte e Parigi. Per l’Italia si tratta di una grande occasione perché un hub è una ricchezza e un elemento di sviluppo economico. Secondo degli studi fatti dall’Università Bocconi di Milano, il nodo aeroportuale avrebbe comportato 150mila posti di lavoro e un valore tra diretto e indotto di 10 miliardi di euro.
Ma a garanzia del progetto l’Europa chiede al Governo italiano collaborazione e quindi accessibilità ferroviaria e stradale. Questo sarà uno dei problemi che faranno di Malpensa un fallimento.
«Credo che Alitalia all’inizio fosse molto scettica rispetto all’hub – afferma il direttore Generale dell’ENAC dal 1998 al 2003, Pierluigi Di Palma – Tant’è che Alitalia chiede di aumentare gli slot su Linate proprio nel momento in cui si stava sviluppando il progetto di ampliamento di Malpensa! Tutto cambia evidentemente quando Prodi va al Governo, perché è stato presidente dell’IRI e quindi ha maggiore capacità di convincere il management Alitalia».
Il 5 luglio ‘96 il Ministro dei trasporti Claudio Burlando emette un decreto che prevede il trasferimento da Linate a Malpensa, in data rimandata ad altro decreto, di tutti i voli internazionali e nazionali, con un numero di passeggeri superiore a 1.750.000 l’anno.
Ma le compagnie estere sono preoccupate perché il nuovo hub rischia di sottrargli traffico e dunque cercano di ostacolare Malpensa 2000 e scrivono al Ministro che il decreto favorisce apertamente il vettore di bandiera. Tutti sono interessati ad avere basi in Italia perché questa genera molto traffico tanto che per quasi tutte le compagnie estere rappresenta la seconda fonte di movimento dopo quella interna. Senza contare il fatto che le previsioni danno un aumento del traffico in Italia del 6%, il triplo di quello degli altri Paesi europei.
I problemi però non vengono solo dall’estero: alcuni comuni lombardi chiedono che la percorrenza della ferrovia sulla propria area di interesse non sia a raso ma interrata. Questo significa costi molto più alti e tempi di realizzazione molto più lunghi rispetto agli impegni presi.
Il 9 ottobre ‘98, comunque, il Ministro Burlando con un nuovo decreto fissa la data di apertura di Malpensa 2000, per il 25 ottobre. Ma quel giorno l’aeroporto non è ancora pronto, mancano i collegamenti. Le compagnie estere quindi dichiarano: “ci trasferiamo a Malpensa solamente quando saranno pronti i collegamenti”. E tramite un rappresentante della Lufthansa, nove di queste annunciano il ricorso alla Commissione Europea.
Chi non partecipa alla conferenza stampa di denuncia contro l’Italia sono Airfrance e KLM: Francesi e Olandesi vogliono mantenere buoni i rapporti sia con il Governo italiano, che con l’Alitalia che per parte sua per presidiare Malpensa ha disperatamente bisogno di un potente alleato straniero.
Alitalia ha bisogno di un alleato, Cempella lo trova in KLM
Domenico Cempella inizia le trattative con gli svizzeri, gli olandesi e i francesi. Cerca un’alleanza che non ponga Alitalia in una posizione debole, ma un partner per un’unione tra eguali e chi in questo momento risponde a questa caratteristica è KLM, così come spiega lo stesso Cempella: «Partivamo dalla presenza di un mercato forte in Italia e l’assenza in Olanda, la presenza di una flotta in Olanda e l’assenza in Italia, eravamo complementari in tutte le attività aziendali».
KLM ha infatti più aerei di quanti ne servano e visti i loro territori e il loro mercato non hanno possibilità di sviluppo, se non attraverso un altro hub.
L’accordo porterebbe alla nascita della più grande compagnia europea: 39 milioni di passeggeri, contro i 38 di Lufthansa, i 36 della British Airway e i 33 di Airfrance; e 263 aerei per 377 destinazioni, con ricavi di oltre 9 miliardi di euro, nonché notevoli risparmi.
Il “master cooperation” viene firmato nel ‘98 con lo slogan “One ticket to the world”, con decorrenza dal 1 novembre del ‘99.
Per la seconda volta in due anni Alitalia ha la possibilità di privatizzare senza traumi, con un accordo che sembra perfetto. Per la stampa olandese Malpensa è un dono di Dio che giustifica perfino un’alleanza definita “azzardata”. Il piano del Governo Prodi, chiamato “progetto Hermes” è molto semplice: creare due hub, Fiumicino e Malpensa, gestiti da una società, realizzata con l’appoggio della finanza e degli imprenditori italiani, in cui il Governo cede una parte delle sue azioni di Aeroporti di Roma, e la città di Milano parte della proprietà della SEA.
Ma il piano del Governo deve fare i conti con molte problematiche prima tra tutte il fatto che l’accordo con KLM si regge tutto sul nuovo hub italiano che intanto non riesce a decollare: se prima a protestare contro Malpensa erano solo le linee straniere ora c’è anche la SEA, la società che gestisce gli aeroporti di Milano che chiede che prima di trasferire i voli vengano completati i lavori stradali. Con la SEA a protestare ci sono anche i 13 milioni di passeggeri che ogni anno affollano Linate e soprattutto i cittadini di Milano abituati ad andare e tornare da Linate velocemente con 40.000 lire di taxi contro un viaggio in treno che gli costerebbe almeno il doppio.
Perdere il progetto Malpensa 2000 sarebbe un duro colpo per il Paese, e così in una lettera aperta Prodi prova a rilanciare e il 25 marzo ‘98 scrive sul Corriere della Sera al sindaco di Milano, Gabriele Albertini: “Se non corriamo al più presto ai ripari Malpensa sarà condannata a un sicuro declino. Di tutto questo ne ho parlato con il sindaco di Milano, la risposta che ne ho ricevuto è stata una rigida difesa di un inesistente e indifendibile primao di Milano e di Malpensa. In questo modo la giunta di Milano segna la condanna di Malpensa 2000”.
Fausto Cereti spiega e commenta la posizione dell’amministrazione lombarda: «È stata l’ingordigia del comune di Milano di pensare che avendo due aeroporti funzionanti li avrebbe venduti a un prezzo più alto, che gli fece perdere la testa; e questo dipende dal fatto che non è detto che una persona (Albertini) che è stata capace di portare avanti bene una fabbrica di 200 persone sia capace di giudicare cosa succede nel traffico aereo…».
Fallisce il piano “Malpensa 2000”
Il 21 ottobre del ‘98 cade il Governo Prodi, a governare l’Italia ora è Massimo D’Alema, mentre il nuovo Ministro dei trasporti è Tiziano Treu.
Nel frattempo i rapporti con l’Europa si complicano: viene accolto il ricorso delle compagnie europee riguardo Malpensa e viene chiesto al Governo di modificare l’assetto dei voli. Il 12 ottobre ‘99 il Ministro Treu ribadisce al Commissaro europeo Lodola de Palacio che il trasferimento avverrà secondo le date previste: il 15 dicembre ’99 e il 15 dicembre 2000.
Ma a complicare le cose si aggiunge il Ministro dell’ambiente Edoardo Ronchi che il 25 novembre, di concerto a quello dei beni culturali, esprime una valutazione di impatto ambientale negativa di
Malpensa in quanto si trova nel parco del Ticino. Chiede dunque un nuovo esame del programma sul trasferimento dei voli.
Un mese dopo Lodola de Palacio in una lettera al Ministro Tiziano Treu ribadisce i dubbi su Malpensa 2000 e chiede di rimandare il trasferimento dei voli per effettuare una precisa analisi
dell’impatto e delle misure ambientali.
Questa decisione non convince il Presidente Alitalia Fausto Cereti: «Noi chiamiamo sempre l’Europa ad arbitrare i nostri affari interni, ma evidentemente se l’arbitro ha anche degli interessi propri cerca di difenderli! Ha approfittato di una situazione in cui l’agnello gli veniva portato dal pastore…».
Il 14 dicembre ’99, un solo giorno prima della data prevista per il trasferimento, in un’agenzia dell’Ansa si legge: “Domani non ci sarà il previsto trasferimento di voli da Linate a Malpensa: lo ha deciso il Ministro Treu d’intesa con il Presidente del Consiglio Massimo D’Alema”.
E fallisce l’accordo con KLM
La KLM decide quindi di rompere l’alleanza il 20 aprile del 2000 con questa motivazione: mancato sviluppo di Malpensa e mancato sviluppo del vettore italiano. La società olandese preferisce pagare la penale prevista di 250 milioni di euro che la porta vicina al fallimento, piuttosto che rimanere legata ad Alitalia. Per Cempella il fallimento di questo suo progetto è un durissimo colpo: «Quando quella famosa sera il capo del governo disse: “si va a morire” - dopo che io venivo da un anno di sofferenze quasi giornaliere dovendo convincere gli Olandesi di volta in volta a venirmi appresso - in quel momento iniziarono a capire che legare il loro destino attraverso la fusione a una linea aerea dove il Governo non era certamente amico dell’Alitalia, non era cosa da fare. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Io da parte mia diedi le dimissioni il 13 dicembre del 2000».
L’Alitalia si trova quindi a doversi dividere da sola su tre aeroporti di punta, Malpensa, Linate e Fiumicino. Questo vuol dire: tripla flotta, tripla manutenzione, triplo personale e di conseguenza costi tripli.
Dopo l’11 settembre
Dopo l’11 settembre il traffico passeggeri mondiale subisce un ingente calo. Alitalia si trova costretta a ridurre i voli intercontinentali, internazionali e nazionali. Ma le perdite continuano a salire superando i 500 miliardi di lire.
Al posto di Domenico Cempella viene chiamato Francesco Mengozzi. Il suo piano prevede tagli per il 41% al settore intercontinentale, ma per gli steward Alitalia è un gravissimo errore: “Cancellare la rotta per Pechino con un 80% di coefficiente di riempimento e con un mercato in espansione è stato assurdo!”.
In piena crisi dunque Alitalia prende decisioni affrettate e sbaglia scelta: punta sul medio raggio e quindi su una concorrenza con le low cost impossibile, quando tutte le altre compagnie privilegiano il lungo raggio dove la filosofia low cost non premia. Le perdite aumentano ancora mentre nel 2003 il traffico mondiale subisce un’altra flessione e scende del 7,1 %.
Alitalia reagisce con nuovi tagli e questa volta a farne le spese è il personale di volo. Eppure secondo i dati dell’AEA (Association of European Airlines) non è il personale il vero (o quantomeno l'unico) problema dell’azienda. Nell’Yearbook 2007 si legge che tra le principali compagnie europee Alitalia ha il più basso rapporto tra dipendenti e aerei in servizio: 61,45 dipendenti per aereo (che salgono a 99,94 se si aggiunge Alitalia Servizi), contro i 246,53 di Air France KLM, i 158,31 della British Airways, i 159,34 dell’Iberia e i 232,21 della Lufthansa. Stesso discorso per gli stipendi: un comandante boeing italiano guadagna circa 8mila euro al mese, il 30% in meno rispetto alla concorrenza europea: 14mila British, 12 Iberia, 11.500 Lufthansa. Si legge anche che il coefficiente del lavoro diviso tra i membri è tra i più alti.
L’unico neo riguarda gli stipendi dei manager, tra i più alti d’Europa. Il vero problema di Alitalia quindi è la cattiva gestione.
Il costo del personale in Italia non supera quindi il 20% contro il 26% delle altre compagnie europee, eppure i tagli vengono fatti ugualmente. Il 1 giugno 2003 quindi il personale sciopera improvvisamente contro la decisione di abbassare da 4 a 3 i membri sui boeing e contro il blocco di straordinari e ferie arretrate: in un solo giorno vengono cancellati 250 voli, e solo 1.300 su 2.000 impiegati effettuano il servizio.
Il piano aziendale 2003
In questa situazione d’emergenza l’Ad Francesco Mengozzi chiede aiuto all’americano Glen Hauenstein, già autore del salvataggio della Continental, che oggi afferma: «Sicuramente il problema maggiore era nella proprietà della compagnia. Quando qui in Amerca mi chiedono perché Alitalia non decolla io rispondo: “Immaginate il Governo americano che gestisce una compagnia aerea!” Lo Stato italiano ha avuto innumerevoli occasioni di uscire da Alitalia, ma alla fine ha sempre scelto di tenere il controllo sulla compagnia».
A questo proposito Fausto Cereti fa la seguente diversificazione tra Italia e resto d’Europa: «La differenza è che mentre all’estero le compagnie sono gestite dai governi in modo discreto, tramite deleghe vere al management, da noi essere azienda di Stato non significa essere l’azienda che deve servire gli interessi dello Stato, ma l’azienda che deve servire gli interessi delle forze politiche».
Il 30 ottobre 2003 Mengozzi presenta a Palazzo Chigi il piano industriale 2004-06, dove i termini più ricorrenti sono “cambiamento” e “privatizzazione”, che prevede prima una ricapitalizzazione e poi la riduzione drastica della proprietà del Tesoro che dal 62% deve scendere sotto il 50%.
Nel 2003 Alitalia e Air france sono le uniche compagnie a essere ancora controllate dallo Stato, ma nell’aprile il Governo francese annuncia: “Privatizzeremo entro l’anno e poi sposeremo KLM”.
Il 13 novembre anche palazzo Chigi annuncia di aver sbloccato la privatizzazione di Alitalia, anche se non dice né come né quando. Contro questo annuncio il 28 novembre in Alitalia ci sono nuovi scioperi: tutti i sindacati sono uniti contro al privatizzazione.
Il governo Berlusconi a questo punto fa dietro front, così come racconta Glen Hauenstein: «Hanno ceduto alle pressioni dei sindacati, non hanno voluto prendere la strada più ardua che però sul lungo periodo si sarebbe rivelata la più giusta. Cercare di attuare le cose seguendo i capricci giornalieri della politica non può mai essere una chiave per il successo. In nessun tipo di
attività finanziaria».
Con Giancarlo Cimoli, l’Alitalia va sempre più in rosso
Il 6 maggio 2003 l’azionista nomina Giancarlo Cimoli come nuovo Amministratore Delegato, Presidente e Direttore generale. L’azienda dichiara 1 milione di perdite al giorno e il nuovo piano industriale di Cimoli approvato dal consiglio d’amministrazione il 20 settembre 2004 prevede ancora una volta nuovi tagli.
L’8 ottobre 2004 il Tesoro fa da garante per un prestito ponte di 400 milioni di euro necessari a salvare la compagnia, mentre l’11 novembre il Consiglio dei Ministri approva un nuovo schema di
decreto per la privatizzazione di Alitalia, in cui autorizza il Tesoro a scendere dal 62% al 49,7%.
Intanto Alitalia perde i voli sulla Sardegna per essersi “dimenticata” di presentare la documentazione per partecipare alla gara d’appalto. Gli slot sulla Sardegna vengono quindi presi da Meridiana e Air One.
L’indebitamento dell’azienda continua ad aumentare ed è ormai sull’orlo del fallimento. Mentre crescono le polemiche sugli stipendi dei manager delle aziende controllate dallo Stato: nel 2005 una delibera del consiglio di amministrazione, per esempio, raddoppia lo stipendio di Giancarlo Cimoli che sale a 2.791.000 euro l’anno (6 volte l’amministratore delegato di Air France e il triplo rispetto a quello di British Airways). Questi nel 2006 lascia il posto prima a Berardino Libonati e poi a Maurizio Prato, e chiede 8 milioni di euro di buonuscita.
Il futuro dell'Alitalia oggi, dopo il fallimento della trattativa della scorsa primavera con AirFrance, ruota attorno all'offerta della cordata Compagnia aerea italiana (Cai), il cui piano prevede tra le altre cose: 3.000 esuberi (ovvero dipendenti interessati da "provvedimenti di integrazione di reddito e di ricollocamento") e salari invariati ma con un chiaro e netto aumento della produttività. Tra le ultime novità vi è la decisione del ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, di ammettere alla procedura di amministrazione straordinaria le società Alitalia Airport e Alitalia Servizi. Intanto però il personale Alitalia continua a protestare e a sperare in un accordo più vantaggioso.
***
La compagnia di bandiera italiana, un tempo autentico orgoglio nazionale, esempio di eccellenza e professionalità, sembra oggi essere divenuta un pesante fardello di cui sbarazzarsi. Ad oltre sessant'anni dal primo volo, effettuato il 5 maggio 1947, Alitalia attraversa una crisi che appare irreversibile: le cattive gestioni e gli sprechi che si sono succeduti negli anni hanno fatto del bilancio aziendale una voragine capace di inghiottire miliardi, mentre il destino dei 20.000 dipendenti resta appeso ad un filo.
Nasce Alitalia
Tutto ha inizio il 5 maggio del 1947 quando dall’aeroporto dell’Urbe di Roma parte il primo volo Alitalia con destinazione Catania. L’aereo è un trimotore G12 Fiat, il costo del biglietto è di 7.000
lire. A capo dell’azienda, nata ufficialmente il 16 settembre del ’46 a maggioranza IRI, c’è l’ambasciatore Giuseppe de Michelis che però si dimette nel ’48 per lasciare il posto al conte Nicolò Carandini, il primo membro di un triumvirato di amministratori che è riuscito a realizzare il grande sviluppo di Alitalia:
Nicolò Carandini: Presidente, politico liberale, dotato di eccellenti relazioni internazionali.
Bruno Velani: Amministratore Delegato, ingegnere aeronautico e pilota militare.
Donato Saracino: Direttore Generale, uomo IRI, amministratore sagace ed attento.
Dal 1948, per 10 anni Alitalia cresce con continuità: apre nuove rotte, rinnova la flotta e vola ovunque ci siano Italiani nel mondo. È la compagna di riferimento di tutto il continente africano dove, come racconta uno steward Alitalia “un rappresentante dell’Alitalia contava più dell’ambasciatore italiano!”. Nel 1950, anno del Giubileo, Alitalia ingloba la Lati, delle linee aeree transcontinentali italiane e conquista anche le rotte del sud america. Intanto salgono a bordo dei DC-4 le prime hostess che indossano tailleur delle sorelle Fontana. Due anni dopo l’azienda chiude in attivo, investe in nuovi aerei a cabina pressurizzata al fine di volare “sopra le nuvole” e quindi più veloci e meno “agitati”.
L’azienda conta in sicurezza su una squadra di ingegneri e meccanici di altissima professionalità: attenti, bravi e veloci, tanto da essere paragonati a quelli della Ferrari.
Nel ‘54 grazie ad aerei più capienti nasce la classe turistica e con le tariffe economiche il trasporto aereo, da lusso per pochi eletti, diventa un mezzo per le masse: un volo Milano-Londra costa 43.500 lire, mentre un Milano-Parigi 19.700. Il cibo e il servizio inoltre sono ottimi, in prima classe si mangia caviale e si beve champagne.
Il 1 settembre del ‘57 Alitaia si fonde con la LAI, altra azienda a maggioranza IRI che con Alitalia si divide di fatto il trasporto aereo in Italia: dalla LAI arrivano rete e passeggeri, e dalla fusione nasce una grande compagnia di bandiera che può finalmente competere con le più grandi compagnie del mondo. È il fiore all’occhiello della nazione.
Nel ‘60 diventa il vettore ufficiale delle Olimpiadi e segna il suo record personale, oltre un milione di passeggeri. Lo stesso anno cambia casa e look: si sposta nell’aeroporto “Leonardo da Vinci” di Fiumicino, mentre il timone di coda viene dipinto con i colori della bandiera italiana.
Compiuti i suoi primi 20 anni Alitalia è già al 7° posto nel trasporto internazionale; in Europa è terza dietro alla British Airways e ad Air France. Collega 70 nazioni, fattura 140 miliardi e conta 10mila dipendenti in tutto il mondo.
È anche la prima compagnia a “portare in cielo” il Papa, Paolo VI, che nel ’69 va in pellegrinaggio a Gerusalemme.
Vent’anni di successi, quindi, grazie a una dirigenza stabile, a ottime strategie di investimento e alle certezze che il mercato dà in questo periodo. Difficile riconoscerla oggi.
Arriva la “deregulation”
All’inizio degli anni ’70 il mondo delle compagnie aeree viene scosso dalle crisi petrolifere (che portano il carburante alle stelle) e dalla deregulation.
Nel 1978 il Presidente americano Jimmy Carter annuncia che il trasporto aereo soffre di “troppa regualtion” e decide di far cadere il regime di monopolio creato da Roosvelt nel ’38. La deregulation cambia letteralmente le regole del gioco: apre alla concorrenza e scatena una competizione senza regole, che straccia i prezzi. Dagli Stati Uniti dove la Pan Am, la più grande compagnia aerea nel mondo, fallisce nel ’91, la deregulation rimbalza in altri stati del mondo: dopo 15 anni di trattative e 3 direttive comunitarie, anche l’Europa nel ‘97 è pronta ad arttuarla.
Le compagnie di bandiera perdono il monopolio dei voli nazionali ed europei, e il mercato aereo apre a imprese private che aumentano i voli e diminuiscono i prezzi. Questo quasi ovunque tranne che in Italia dove, come afferma Sergio Arienzi, steward Alitalia fino al 2005: «deregulation vuol dire “rinunciare ai soldi pubblici”, cioè agli aiuti economici per coprire debiti spesso causati dallo Stato stesso attraverso un uso politico ed elettorale, anziché imprenditoriale, delle compagnie nazionali. Come i voli creati ad hoc perché servivano al politico che doveva venire dalla Sicilia a Roma la mattina presto che portavano solo 4 passeggeri!»”
Quindi se dalla fine degli anni ’80 in tutta Europa, Stati e compagnie di bandiera preparano piani industriali e leggi per avviare la privatizzazione e far crescere le aziende attraverso alleanze vantaggiose, l’Italia dal canto suo rimane indietro: è ancora controllata al 100% dal Tesoro, non ha alleati, ha le casse vuote, pochi aerei e per giunta vecchi. È l’inizio di un declino che oggi sembra irrefrenabile.
La direzione Cempella e la prima privatizzazione
Nei primi anni ‘90 l’eccessivo piano di investimenti produce risultati di bilancio molto deludenti mentre le tensioni sindacali iniziano a crescere a dismisura.
Nel ’96 l’azionista, ovvero lo Stato, nomina come Amministratore Delegato, Domenico Cempella, un uomo che aveva lavorato da sempre in Alitalia: «Trovai una situazione che si può descrivere così: debiti per 3mila miliardi, patrimonio netto 150 miliardi, 10 anni di perdite e una situazione interna abbastanza difficile perché c’erano delle forti lotte intestine fra sindacati. Era un prodotto che non stava sul mercato, l’Alitalia era veramente tecnicamente fallita».
Come detto Alitalia si trova indietro rispetto agli altri vettori europei e necessita al più presto di un vero piano industriale finalizzato a due obiettivi fondamentali: crescita e privatizzazione.
Cempella come prima cosa fa alcuni tagli (il costo del lavoro passa dal 27% di incidenza sul fatturato al 20%), e poi mette in atto il suo piano: vendere parte delle azioni (il 21%) ai lavoratori stessi. Questo comporta più lavoro allo stesso prezzo, cioè azioni in cambio di retribuzioni. I dipendenti diventano azionisti e partecipano alle strategie e alle decisioni della compagnia che da parte sua risparmia. Con questa mossa Cempella ottiene 4 anni di pace in relazione agli scioperi.
Ma in realtà non tutti i sindacati sono concordi così come racconta Fausto Cereti, che di Alitalia ne è stato il Presidente dal ’96 al 2003: «Il problema fu che la CISL era favorevole, mentre la CGIL considerava le azioni ai dipendenti una manovra paternalistica “vallettiana”: uno voleva la proprietà ai dipendenti, l’altro voleva il padrone dall’altra parte della barricata. Tant’è vero che Cofferati ordinò al rappresentante della CGIL di non partecipare ai due consigli».
La CGIL decide quindi di lasciare le azioni nelle mani dell’azionista pubblico che oggi con i conti della compagnia in rosso valgono pochissimo: da più di 100 milioni di lire sono scese a poche decine di euro.
Per la prima volta quindi nel 1996 l’azionista pubblico e cioè il Ministero del Tesoro del Governo Prodi vende il 37% delle azioni di Alitalia. Il 21%, come detto, va ai dipendenti, mentre un altro 15% viene messo sul mercato con un ottimo risultato di borsa: l’Alitalia che privatizza legando i propri dipendenti alla compagnia dà fiducia agli investitori. Ma ben presto questo sforzo si rivelerà un’occasione sprecata per Stato, dipendenti e azienda.
Intanto nel 1997, nella prima fase del piano industriale, i conti cominciano a tornare: la capitalizzazione di borsa passa da 600 a 6.000 miliardi, Alitalia salda i debiti per 3.000 miliardi e investe nella flotta per 2.500 miliardi. Nel triennio ‘97-‘99 gli utili netti arrivano quasi a mille miliardi di lire. L’azienda è quindi sostanzialmente risanata.
L’Europa ostacola la ricapitalizzazione
Secondo Cempella la posizione strategica di Alitalia è difficile: troppo grande per competere con i piccoli e troppo piccola per i grandi. Per l’amministratore delegato “sviluppo” significa “cambiare
dimensione” e scegliere di diventare una compagnia globale.
Fino a questo momento infatti Alitalia non era stata né carne né pesce, non aveva una vera direzione in quanto manager diversi e di breve durata, con politiche spesso contraddittorie, avevano impedito all’azienda di scegliere il suo business ed esserne coerente fino in fondo: se da una parte Roberto Schisano, Amministratore delegato dal ‘94 al ‘95, aveva scelto in accordo con l’azionista un piano di rilancio che scommetteva sul low cost, e quindi sul medio raggio, il Presidente Renato Riverso nei due anni seguenti lavorò invece, sempre d’accordo con l’azionista, a un piano che puntava sul lungo raggio tentando un’alleanza (poi fallita) con la British Airways.
Nel ’96 Cempella stima a 3mila miliardi la quota necessaria per la ricapitalizzazione. Ma poiché viene da un soggetto pubblico, la legge prevede che passi l’esame da parte della Comunità Europea. Per poter avere l’ok occorre che i risultati del piano, e cioè la redditività dell’intervento dell’azionista pubblico, sia uguale alla redditività attesa da un finanziatore privato. Ovvero, lo Stato può ricapitalizzare, ridare energie economiche al proprio vettore, ma come un qualunque investitore privato che dal finanziamento si aspetta un utile in linea con il mercato. Non può fare quindi finanziamenti a fondo perduto.
Secondo Cempella il suo piano risponde alla normativa, eppure alla fine del processo di esame, la Comunità decide di assegnare a questa operazione il titolo di “Stato compatibile”, questo significa
mettere l’azienda per quattro o cinque anni sotto tutela impossibilitandolo ad aprire nuove rotte, acquistare nuovi arerei e applicare la migliore tariffa sulla stessa rotta.
Per l’Ad il Governo non aveva fatto abbastanza per evitare questa decisione: «Lo Stato italiano, l’azionista, accettò questa “imposizione”, quando un’azione molto più incisiva del Governo avrebbe probabilmente determinato una fine diversa».
E infatti in quegli anni Air France e Iberia chiedono e ottengono dalla Comunità Europea di poter ricapitalizzare come finanziamento di mercato, nonostante il loro piano industriale presenti degli indici di premio (cioè guadagni) inferiori a quelli del piano di Cempella che quindi fa approvare dal Consiglio di Amministrazione un ricorso “perché fermamente convinto che la decisione fosse iniqua e ingiusta”.
Il ricorso viene vinto il 12 dicembre del 2000, ma per l’azienda ormai è troppo tardi.
Se quindi come ammesso dalla stessa Comunità Europea, le ragioni della bocciatura non erano nel piano industriale, dove si trovavano? L’unica risposta che Fausto Cereti si dà è legata agli interessi che l’Europa stessa aveva in Italia, soprattutto in relazione al progetto “Malpensa 2000”.
Malpensa 2000
Di Malpensa si inizia a parlare già dal ‘93 quando il consiglio d’Europa chiede ai Paesi membri di sviluppare i collegamenti con l’Europa dell’est. Tra i vari progetti l’Italia presenta quello per
“Malpensa 2000” che l’Europa approva nel ‘94.
A dicembre la Banca Europea sottoscrive l’accordo per erogare alla SEA, la società di gestione degli aeroporti di Milano (di proprietà del Comune), oltre 400 miliardi di lire da restituire in 15 anni.
Sono soldi destinati a fare di Malpensa un grande hub, ovvero un distributore di traffico aeroportuale dove i passeggeri trovano voli per tutte le destinazioni, concorrente a quello di Francoforte e Parigi. Per l’Italia si tratta di una grande occasione perché un hub è una ricchezza e un elemento di sviluppo economico. Secondo degli studi fatti dall’Università Bocconi di Milano, il nodo aeroportuale avrebbe comportato 150mila posti di lavoro e un valore tra diretto e indotto di 10 miliardi di euro.
Ma a garanzia del progetto l’Europa chiede al Governo italiano collaborazione e quindi accessibilità ferroviaria e stradale. Questo sarà uno dei problemi che faranno di Malpensa un fallimento.
«Credo che Alitalia all’inizio fosse molto scettica rispetto all’hub – afferma il direttore Generale dell’ENAC dal 1998 al 2003, Pierluigi Di Palma – Tant’è che Alitalia chiede di aumentare gli slot su Linate proprio nel momento in cui si stava sviluppando il progetto di ampliamento di Malpensa! Tutto cambia evidentemente quando Prodi va al Governo, perché è stato presidente dell’IRI e quindi ha maggiore capacità di convincere il management Alitalia».
Il 5 luglio ‘96 il Ministro dei trasporti Claudio Burlando emette un decreto che prevede il trasferimento da Linate a Malpensa, in data rimandata ad altro decreto, di tutti i voli internazionali e nazionali, con un numero di passeggeri superiore a 1.750.000 l’anno.
Ma le compagnie estere sono preoccupate perché il nuovo hub rischia di sottrargli traffico e dunque cercano di ostacolare Malpensa 2000 e scrivono al Ministro che il decreto favorisce apertamente il vettore di bandiera. Tutti sono interessati ad avere basi in Italia perché questa genera molto traffico tanto che per quasi tutte le compagnie estere rappresenta la seconda fonte di movimento dopo quella interna. Senza contare il fatto che le previsioni danno un aumento del traffico in Italia del 6%, il triplo di quello degli altri Paesi europei.
I problemi però non vengono solo dall’estero: alcuni comuni lombardi chiedono che la percorrenza della ferrovia sulla propria area di interesse non sia a raso ma interrata. Questo significa costi molto più alti e tempi di realizzazione molto più lunghi rispetto agli impegni presi.
Il 9 ottobre ‘98, comunque, il Ministro Burlando con un nuovo decreto fissa la data di apertura di Malpensa 2000, per il 25 ottobre. Ma quel giorno l’aeroporto non è ancora pronto, mancano i collegamenti. Le compagnie estere quindi dichiarano: “ci trasferiamo a Malpensa solamente quando saranno pronti i collegamenti”. E tramite un rappresentante della Lufthansa, nove di queste annunciano il ricorso alla Commissione Europea.
Chi non partecipa alla conferenza stampa di denuncia contro l’Italia sono Airfrance e KLM: Francesi e Olandesi vogliono mantenere buoni i rapporti sia con il Governo italiano, che con l’Alitalia che per parte sua per presidiare Malpensa ha disperatamente bisogno di un potente alleato straniero.
Alitalia ha bisogno di un alleato, Cempella lo trova in KLM
Domenico Cempella inizia le trattative con gli svizzeri, gli olandesi e i francesi. Cerca un’alleanza che non ponga Alitalia in una posizione debole, ma un partner per un’unione tra eguali e chi in questo momento risponde a questa caratteristica è KLM, così come spiega lo stesso Cempella: «Partivamo dalla presenza di un mercato forte in Italia e l’assenza in Olanda, la presenza di una flotta in Olanda e l’assenza in Italia, eravamo complementari in tutte le attività aziendali».
KLM ha infatti più aerei di quanti ne servano e visti i loro territori e il loro mercato non hanno possibilità di sviluppo, se non attraverso un altro hub.
L’accordo porterebbe alla nascita della più grande compagnia europea: 39 milioni di passeggeri, contro i 38 di Lufthansa, i 36 della British Airway e i 33 di Airfrance; e 263 aerei per 377 destinazioni, con ricavi di oltre 9 miliardi di euro, nonché notevoli risparmi.
Il “master cooperation” viene firmato nel ‘98 con lo slogan “One ticket to the world”, con decorrenza dal 1 novembre del ‘99.
Per la seconda volta in due anni Alitalia ha la possibilità di privatizzare senza traumi, con un accordo che sembra perfetto. Per la stampa olandese Malpensa è un dono di Dio che giustifica perfino un’alleanza definita “azzardata”. Il piano del Governo Prodi, chiamato “progetto Hermes” è molto semplice: creare due hub, Fiumicino e Malpensa, gestiti da una società, realizzata con l’appoggio della finanza e degli imprenditori italiani, in cui il Governo cede una parte delle sue azioni di Aeroporti di Roma, e la città di Milano parte della proprietà della SEA.
Ma il piano del Governo deve fare i conti con molte problematiche prima tra tutte il fatto che l’accordo con KLM si regge tutto sul nuovo hub italiano che intanto non riesce a decollare: se prima a protestare contro Malpensa erano solo le linee straniere ora c’è anche la SEA, la società che gestisce gli aeroporti di Milano che chiede che prima di trasferire i voli vengano completati i lavori stradali. Con la SEA a protestare ci sono anche i 13 milioni di passeggeri che ogni anno affollano Linate e soprattutto i cittadini di Milano abituati ad andare e tornare da Linate velocemente con 40.000 lire di taxi contro un viaggio in treno che gli costerebbe almeno il doppio.
Perdere il progetto Malpensa 2000 sarebbe un duro colpo per il Paese, e così in una lettera aperta Prodi prova a rilanciare e il 25 marzo ‘98 scrive sul Corriere della Sera al sindaco di Milano, Gabriele Albertini: “Se non corriamo al più presto ai ripari Malpensa sarà condannata a un sicuro declino. Di tutto questo ne ho parlato con il sindaco di Milano, la risposta che ne ho ricevuto è stata una rigida difesa di un inesistente e indifendibile primao di Milano e di Malpensa. In questo modo la giunta di Milano segna la condanna di Malpensa 2000”.
Fausto Cereti spiega e commenta la posizione dell’amministrazione lombarda: «È stata l’ingordigia del comune di Milano di pensare che avendo due aeroporti funzionanti li avrebbe venduti a un prezzo più alto, che gli fece perdere la testa; e questo dipende dal fatto che non è detto che una persona (Albertini) che è stata capace di portare avanti bene una fabbrica di 200 persone sia capace di giudicare cosa succede nel traffico aereo…».
Fallisce il piano “Malpensa 2000”
Il 21 ottobre del ‘98 cade il Governo Prodi, a governare l’Italia ora è Massimo D’Alema, mentre il nuovo Ministro dei trasporti è Tiziano Treu.
Nel frattempo i rapporti con l’Europa si complicano: viene accolto il ricorso delle compagnie europee riguardo Malpensa e viene chiesto al Governo di modificare l’assetto dei voli. Il 12 ottobre ‘99 il Ministro Treu ribadisce al Commissaro europeo Lodola de Palacio che il trasferimento avverrà secondo le date previste: il 15 dicembre ’99 e il 15 dicembre 2000.
Ma a complicare le cose si aggiunge il Ministro dell’ambiente Edoardo Ronchi che il 25 novembre, di concerto a quello dei beni culturali, esprime una valutazione di impatto ambientale negativa di
Malpensa in quanto si trova nel parco del Ticino. Chiede dunque un nuovo esame del programma sul trasferimento dei voli.
Un mese dopo Lodola de Palacio in una lettera al Ministro Tiziano Treu ribadisce i dubbi su Malpensa 2000 e chiede di rimandare il trasferimento dei voli per effettuare una precisa analisi
dell’impatto e delle misure ambientali.
Questa decisione non convince il Presidente Alitalia Fausto Cereti: «Noi chiamiamo sempre l’Europa ad arbitrare i nostri affari interni, ma evidentemente se l’arbitro ha anche degli interessi propri cerca di difenderli! Ha approfittato di una situazione in cui l’agnello gli veniva portato dal pastore…».
Il 14 dicembre ’99, un solo giorno prima della data prevista per il trasferimento, in un’agenzia dell’Ansa si legge: “Domani non ci sarà il previsto trasferimento di voli da Linate a Malpensa: lo ha deciso il Ministro Treu d’intesa con il Presidente del Consiglio Massimo D’Alema”.
E fallisce l’accordo con KLM
La KLM decide quindi di rompere l’alleanza il 20 aprile del 2000 con questa motivazione: mancato sviluppo di Malpensa e mancato sviluppo del vettore italiano. La società olandese preferisce pagare la penale prevista di 250 milioni di euro che la porta vicina al fallimento, piuttosto che rimanere legata ad Alitalia. Per Cempella il fallimento di questo suo progetto è un durissimo colpo: «Quando quella famosa sera il capo del governo disse: “si va a morire” - dopo che io venivo da un anno di sofferenze quasi giornaliere dovendo convincere gli Olandesi di volta in volta a venirmi appresso - in quel momento iniziarono a capire che legare il loro destino attraverso la fusione a una linea aerea dove il Governo non era certamente amico dell’Alitalia, non era cosa da fare. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Io da parte mia diedi le dimissioni il 13 dicembre del 2000».
L’Alitalia si trova quindi a doversi dividere da sola su tre aeroporti di punta, Malpensa, Linate e Fiumicino. Questo vuol dire: tripla flotta, tripla manutenzione, triplo personale e di conseguenza costi tripli.
Dopo l’11 settembre
Dopo l’11 settembre il traffico passeggeri mondiale subisce un ingente calo. Alitalia si trova costretta a ridurre i voli intercontinentali, internazionali e nazionali. Ma le perdite continuano a salire superando i 500 miliardi di lire.
Al posto di Domenico Cempella viene chiamato Francesco Mengozzi. Il suo piano prevede tagli per il 41% al settore intercontinentale, ma per gli steward Alitalia è un gravissimo errore: “Cancellare la rotta per Pechino con un 80% di coefficiente di riempimento e con un mercato in espansione è stato assurdo!”.
In piena crisi dunque Alitalia prende decisioni affrettate e sbaglia scelta: punta sul medio raggio e quindi su una concorrenza con le low cost impossibile, quando tutte le altre compagnie privilegiano il lungo raggio dove la filosofia low cost non premia. Le perdite aumentano ancora mentre nel 2003 il traffico mondiale subisce un’altra flessione e scende del 7,1 %.
Alitalia reagisce con nuovi tagli e questa volta a farne le spese è il personale di volo. Eppure secondo i dati dell’AEA (Association of European Airlines) non è il personale il vero (o quantomeno l'unico) problema dell’azienda. Nell’Yearbook 2007 si legge che tra le principali compagnie europee Alitalia ha il più basso rapporto tra dipendenti e aerei in servizio: 61,45 dipendenti per aereo (che salgono a 99,94 se si aggiunge Alitalia Servizi), contro i 246,53 di Air France KLM, i 158,31 della British Airways, i 159,34 dell’Iberia e i 232,21 della Lufthansa. Stesso discorso per gli stipendi: un comandante boeing italiano guadagna circa 8mila euro al mese, il 30% in meno rispetto alla concorrenza europea: 14mila British, 12 Iberia, 11.500 Lufthansa. Si legge anche che il coefficiente del lavoro diviso tra i membri è tra i più alti.
L’unico neo riguarda gli stipendi dei manager, tra i più alti d’Europa. Il vero problema di Alitalia quindi è la cattiva gestione.
Il costo del personale in Italia non supera quindi il 20% contro il 26% delle altre compagnie europee, eppure i tagli vengono fatti ugualmente. Il 1 giugno 2003 quindi il personale sciopera improvvisamente contro la decisione di abbassare da 4 a 3 i membri sui boeing e contro il blocco di straordinari e ferie arretrate: in un solo giorno vengono cancellati 250 voli, e solo 1.300 su 2.000 impiegati effettuano il servizio.
Il piano aziendale 2003
In questa situazione d’emergenza l’Ad Francesco Mengozzi chiede aiuto all’americano Glen Hauenstein, già autore del salvataggio della Continental, che oggi afferma: «Sicuramente il problema maggiore era nella proprietà della compagnia. Quando qui in Amerca mi chiedono perché Alitalia non decolla io rispondo: “Immaginate il Governo americano che gestisce una compagnia aerea!” Lo Stato italiano ha avuto innumerevoli occasioni di uscire da Alitalia, ma alla fine ha sempre scelto di tenere il controllo sulla compagnia».
A questo proposito Fausto Cereti fa la seguente diversificazione tra Italia e resto d’Europa: «La differenza è che mentre all’estero le compagnie sono gestite dai governi in modo discreto, tramite deleghe vere al management, da noi essere azienda di Stato non significa essere l’azienda che deve servire gli interessi dello Stato, ma l’azienda che deve servire gli interessi delle forze politiche».
Il 30 ottobre 2003 Mengozzi presenta a Palazzo Chigi il piano industriale 2004-06, dove i termini più ricorrenti sono “cambiamento” e “privatizzazione”, che prevede prima una ricapitalizzazione e poi la riduzione drastica della proprietà del Tesoro che dal 62% deve scendere sotto il 50%.
Nel 2003 Alitalia e Air france sono le uniche compagnie a essere ancora controllate dallo Stato, ma nell’aprile il Governo francese annuncia: “Privatizzeremo entro l’anno e poi sposeremo KLM”.
Il 13 novembre anche palazzo Chigi annuncia di aver sbloccato la privatizzazione di Alitalia, anche se non dice né come né quando. Contro questo annuncio il 28 novembre in Alitalia ci sono nuovi scioperi: tutti i sindacati sono uniti contro al privatizzazione.
Il governo Berlusconi a questo punto fa dietro front, così come racconta Glen Hauenstein: «Hanno ceduto alle pressioni dei sindacati, non hanno voluto prendere la strada più ardua che però sul lungo periodo si sarebbe rivelata la più giusta. Cercare di attuare le cose seguendo i capricci giornalieri della politica non può mai essere una chiave per il successo. In nessun tipo di
attività finanziaria».
Con Giancarlo Cimoli, l’Alitalia va sempre più in rosso
Il 6 maggio 2003 l’azionista nomina Giancarlo Cimoli come nuovo Amministratore Delegato, Presidente e Direttore generale. L’azienda dichiara 1 milione di perdite al giorno e il nuovo piano industriale di Cimoli approvato dal consiglio d’amministrazione il 20 settembre 2004 prevede ancora una volta nuovi tagli.
L’8 ottobre 2004 il Tesoro fa da garante per un prestito ponte di 400 milioni di euro necessari a salvare la compagnia, mentre l’11 novembre il Consiglio dei Ministri approva un nuovo schema di
decreto per la privatizzazione di Alitalia, in cui autorizza il Tesoro a scendere dal 62% al 49,7%.
Intanto Alitalia perde i voli sulla Sardegna per essersi “dimenticata” di presentare la documentazione per partecipare alla gara d’appalto. Gli slot sulla Sardegna vengono quindi presi da Meridiana e Air One.
L’indebitamento dell’azienda continua ad aumentare ed è ormai sull’orlo del fallimento. Mentre crescono le polemiche sugli stipendi dei manager delle aziende controllate dallo Stato: nel 2005 una delibera del consiglio di amministrazione, per esempio, raddoppia lo stipendio di Giancarlo Cimoli che sale a 2.791.000 euro l’anno (6 volte l’amministratore delegato di Air France e il triplo rispetto a quello di British Airways). Questi nel 2006 lascia il posto prima a Berardino Libonati e poi a Maurizio Prato, e chiede 8 milioni di euro di buonuscita.
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Albert Einstein: "Conosco una sola razza, quella umana"
cheyenne
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lunedì 15 settembre 2008
Gli imbufaliti cacciatori di bufale
di Umberto Rapetto
Il nuovo allarme relativo alle cosiddette cyber-droghe ha scatenato la reazione del popolo dei blogger che, pur non conoscendo la materia, etichettano come errati i “tragici” avvertimenti degli esperti
Il pregio dei periodici sta nella possibilità di trattare i temi più appassionanti quando le emozioni del momento si sono chetate. Pagine come questa, poi, danno l’opportunità di parlare con quei toni pacati che sembrano lontani e inapplicabili nelle caotiche discussioni della “blog generation”.E’ l’intrigante storia delle cyber-droghe che ci siamo lasciati alle spalle andando in ferie, tema che ha intrecciato la sicurezza della Rete, quella della società e dei minori tanto spavaldi quanto indifesi, persino quella dell’informazione.
Particolari file audio conterrebbero infrasuoni che, sviluppati nel range 0,1-30 Hertz, sono in grado di interferire con l’attività cerebrale dei soggetti che ne sono bersaglio o semplici inconsapevoli destinatari o fruitori. Il “prodotto” incontra l’interesse dei giovani, i siti che parlano di “i-Dose” si moltiplicano, i Web che permettono di scaricare gratuitamente o a pagamento i file in questione si guadagnano subito un posto nei “Preferiti” nel browser di molti teen-ager.
Particolari file audio conterrebbero infrasuoni che, sviluppati nel range 0,1-30 Hertz, sono in grado di interferire con l’attività cerebrale dei soggetti che ne sono bersaglio o semplici inconsapevoli destinatari o fruitori. Il “prodotto” incontra l’interesse dei giovani, i siti che parlano di “i-Dose” si moltiplicano, i Web che permettono di scaricare gratuitamente o a pagamento i file in questione si guadagnano subito un posto nei “Preferiti” nel browser di molti teen-ager.
Il fenomeno, sbocciato negli Stati Uniti, rimbalza in Spagna e quindi – per l’imprevedibile impollinazione telematica – fiorisce anche dalle nostre parti. Il GAT, il Nucleo Speciale Frodi Telematiche delle fiamme gialle, dirama un comunicato con cui invita a considerare il possibile pericolo. L’avvertimento si trasforma in notizia e alla sortita giornalistica si abbinano le prime considerazioni degli esperti: neurologi, psichiatri e fisici – nel sottolineare che certe bassissime frequenze non sono una novità mentre è certo insolita la spasmodica ricerca online di cose del genere – rimarcano i possibili effetti che determinati impulsi possono avere sulla corteccia cerebrale.
La vicenda risveglia dal torpore i personaggi più strabilianti della popolazione di Internet che, aspettando da tempo occasione per dire qualcosa e trovare un briciolo di visibilità, si scatenano in
discussioni su tematiche a loro totalmente ignote. Dimenticando spesso anche i dettami della creanza, battaglioni di improvvisati premi Nobel cominciano a dissertare sui blog attribuendo caratteristiche testicolari a chi aveva diffuso l’alert e giudicando con estrema severità le competenze di chi con loro non aveva mai avuto modo di raffrontarsi. Urla e strepiti dei condottieri della crociata antibufala rimangono ora in condizione orbitale, destinati all’immortalità che Internet regala a quelle piccole comunità che, scambiata la Rete per la bacheca di condominio, lottano per la rispettiva quota millesimale di libera espressione.
continua >>> l'articolo del Colonnello Umberto Rapetto pubblicato su Datamanager
La vicenda risveglia dal torpore i personaggi più strabilianti della popolazione di Internet che, aspettando da tempo occasione per dire qualcosa e trovare un briciolo di visibilità, si scatenano in
discussioni su tematiche a loro totalmente ignote. Dimenticando spesso anche i dettami della creanza, battaglioni di improvvisati premi Nobel cominciano a dissertare sui blog attribuendo caratteristiche testicolari a chi aveva diffuso l’alert e giudicando con estrema severità le competenze di chi con loro non aveva mai avuto modo di raffrontarsi. Urla e strepiti dei condottieri della crociata antibufala rimangono ora in condizione orbitale, destinati all’immortalità che Internet regala a quelle piccole comunità che, scambiata la Rete per la bacheca di condominio, lottano per la rispettiva quota millesimale di libera espressione.
continua >>> l'articolo del Colonnello Umberto Rapetto pubblicato su Datamanager
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cos'altro aggiungere al mio precedente commento? Ancora una volta concordo con il Colonnello Umberto Rapetto (nel mio piccolo .....)
La levata di scudi che si è eretta nell'immediatezza dell'alert lanciato dal GAT è difficilmente comprensibile. Come se - per ipotesi - la Protezione civile lanciasse un allarme per possibili frane, e si rispondesse con autosufficienza che è una bufala. A che serve respingere un allarme? Come si fa ad escludere la pericolosità dell'I-doser? Con quali dati medico-scientifici? C'è davvero di che rimanere sconcertati ... chissà perchè mi vengono in mente centinaia e centinaia di articoli di giornali che di fronte a tragedie automobilistiche provocate dall'alta velocità si chiudono con un corale "Perchè?"
Siamo di fronte a nuovi scenari e nuove emergenze giovanili che non nascono improvviamente, a caso, per pura fatalità. Occorre una riflessione collettiva dei segnali che vengono da questa società. Si parla anche di micidiali cocktail di droghe....
Siamo sicuri di non aver trascurato alcunchè nell'educazione e formazione delle nuove generazioni? Nessuno ci ha insegnato il mestiere di genitori, sta a noi far tesoro delle esperienze e scambiarle con umiltà, senza la presunzione di avere "la verità in tasca".....
Nel merito dei blogger, c'è il positivo ed il negativo, come in tutte le community sul web. Purtroppo, anche nella community dei blogger imperversa il qualunquismo: non a caso nelle Hit Parade dei blogger italiani c'è un comico ....
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Albert Einstein: "Conosco una sola razza, quella umana"
cheyenne
venerdì 12 settembre 2008
Televideo di Telenorba: chi difende i minori?
Non riesco a credere che nessuno, proprio nessuno si sia accorto che nel Televideo dell'emittente televisiva Telenorba ci sia ben in vista nel menu principale, tra le varie informazioni, il tasto di scelta "TELEINCONTRI pag. 570" visionabile anche al relativo sito internet.
Non riesco a credere che nessuno, prorio nessuno si sia accorto che, alla pag. 581, appare un titolo "SEVERAMENTE VIETATO AI MINORI" con ulteriori e più esplicite pubblicità di offerte di sesso a pagamento, per ogni gusto ed inclinazione.
Non sfugge ad alcuno - almeno credo - che tali titoli sono come il miele per le api (infanzia e adolescenti n.d.r.), così come il dato oggettivo che un televideo di qualsiasi emittente televisiva sia visionabile a prescindere dalle ore di fascia cosidetta "protetta" ai minori. Ovviamente il tutto condito con i famigerati numeri a tariffazione aggiuntiva 899, 166, etc [il cui blocco partirà dal 1 ottobre p.v.]
Mi tocca dunque, - ob torto collo - fare la parte della "fustigatrice di facili costumi" oppure, della condanna bigotta/moralistica o, se vi pare, dell'inutile sfogo di un genitore preoccupato ....fate vobis ..... L'educazione e la formazione delle future generazioni non possono essere responsabilità solo dei genitori....
Che fine ha fatto "Il codice di autoregolamentazione TV e minori?
La suindicata emittente televisiva ha sottoscritto tale accordo?
Mah! chissà se il Garante per l'infanzia e l'adolescenza oppure qualche esponente del CO.RE.COM di Puglia avrà la bontà di intervenire, sempre che si tratti di violazione del codice suindicato. Confesso, che qualche dubbio mi è sorto dall'assordante silenzio che gravita intorno a Telenorba, ma che sarà? boh!In caso contrario, mi cospargerò il capo di cenere e, sopratutto, mi imporrò di guardare qualche tg di Telenorba. Mi sembra che sia sufficiente come espiazione, oppure sbaglio?
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Albert Einstein: "Conosco una sola razza, quella umana"
cheyenne
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